sabato 27 dicembre 2008

Cronache natalizie

Non è un caso che il Natale sia la summa di tutte le feste cattoliche. Aho, nasce Gesù, mica cazzi. Già i rituali cattolici sono delle trappole teatrali scrupolosissime: reiterazione di formule, solennità dei gesti, morbidi increspamenti di abiti talari. Sentenze secche e taglienti, suono d’organo e profumo marcato d’incenso. Perfezione pura. Una messa in scena coercitiva scritta a tavolino che esercita una suggestione super e simula un’interattività che in realtà non esiste. Il teatro è ipnosi e trasmissione di regole al pubblico. Poche regole ma di ferro, collaudate nel corso di centinaia di anni. Lo stesso rigore di cui brilla il natale consumista-occidentale-borghese. Affermare che si sia perso lo spirito natalizio in nome del consumismo sfrenato è una panzana. Il mercato non ha fatto altro che imitare la chiesa: regole. E aspettative, luoghi deputati, liturgia delle azioni. Il natale è esagerazione, distruzione di schemi e abitudini consolidate nel quotidiano, sostituite da comportamenti extra-ordinari che, paradossalmente, quel giorno sono comuni a tutti e perciò smettono di essere extra.
Ve ne accorgete dagli avanzi in frigorifero e dalla spossatezza mentale successiva agli affollati rendez-vous familiari: extra. Quando siamo sottoposti ad una serie di condotte indotte e discontinuità obbligatorie, andiamo in tilt. Del resto chi uscirebbe completamente indenne dal festival delle aggregazioni forzate? Per un anno scegliamo di non incontrare un certo gruppo di persone e, all’improvviso, tac: ce li troviamo fianco a fianco, ci puliamo per sbaglio con la stessa salvietta, gli versiamo il vino, ci chiedono di noi. Che fai, chi sei, come stai? Una vita da sintetizzare con la porta d’ingresso ancora aperta, pianerottolo a vista. Una messa in scena.
Un promiscuo miscuglio di bambini, anziani, giovani e medi adulti (che sono come le piccole e medie imprese: indefinibili). Col corridoio unica via di fuga verso il cesso unica oasi di pace con lo sciacquone unica soave melodia. Le regole andrebbero sovvertite e i commensali riuniti per categorie. Anziani con anziani, bambini coi bambini. E ancora tavolate di giovani e medi adulti suddivisi a loro volta per indole, hobby e perversioni: fachiri, rabdomanti, feticisti del piede, poligami. E invece no. il Natale è la festa del monoteismo sessuale per eccellenza. Un unico comandamento: “Non avrai altro interlocutore intimo al di fuori di me”. L’unico vantaggio è che si annullano pure paranoie e gelosie. Tua moglie sta lì con te, la tua fidanzata sta là con la sua famiglia, la tua amante dei sogni è imprigionata tra zii logorroici e le carte del Mercante in Fiera. Tra il cenone e il pranzo ogni squilibrio ormonale cede il passo al cliché e allo schema. Sì, schemi. Il Natale è la festa con più schemi da rispettare e allo stesso tempo quella che innesca i comportamenti più fuori dagli schemi. Dite di no? Ditelo a mia madre che non esce mai di sera specie d’inverno. Né lei né i suoi acciacchi e i dolori reumatici. La città è troppo aggressiva per una casalinga non disperata e un fegato disabituato ai fritti; ditelo a mia zia L. che ha faticato mesi per mettere a punto il suo apparecchio acustico che adesso rimbomba e fischia tempestato dalle urla di piccole furie e dai dibattiti retorici sulla crisi da parte di superficiali giovani e medi adulti; ditelo a me che al terzo grappino devo sostenere l’annuale discussione di cinema con mio cugino S. il quale da circa quindici anni sostiene che l’unico film che merita di essere visto sia “Kramer contro Kramer”, cioè un battibecco coniugale lungo due ore con Dustin Hoffman e Meryl Streep datato 1979 che sta alla storia del cinema come questo blog alla storia dell’enigmistica. Ditelo di nuovo a me, costretto a dribblare soldatini e limoncelli (il cui abbandono dalle tavole degli italiani sarà sempre tardivo, oltre che un enorme balzo culturale in avanti) per sopravvivere a raccapriccianti ballottaggi salva-conversazioni, del tipo: è meglio Obama o Kennedy? Ibrahimovic o Cristiano Ronaldo? Michelle Hunziker o Vanessa Incontrada (per me Vanessa, per inciso). Cliché, schemi, regole, regali. Da scegliere per qualcuno che non si frequenta mai (due anni fa per me una cravatta!) o che si presume inchiodato per sempre ai suoi gusti (per me quest’anno un altro maglione nero. Sì, lo so, indosso vestiti scuri, ma cazzo…). Natale, cliché, schemi, formule verbali. Gli ospiti un po’ più estranei che dicono “squisito” per complimentarsi con la padrona di casa. Meschini risentimenti mai sopiti che grattano le orecchie con frasi sibilline ed etichette appiccicate. Natale e la porta che si chiude dopo l’accompagnamento all’ascensore di prammatica. Io e mia madre che torniamo di notte, su strade trafficate dove sfilano le acconciature delle puttane. Cos’è? Un gioco di ruolo riuscito male? Sbircio negli abitacoli altrui dove si compongono schieramenti assurdi: nonne aggrappate al sedile davanti, adolescenti inquiete che sembrano prese in ostaggio, buste gonfie di scatole di panettoni. E poi capannelli di cappotti e sciarpe nei dintorni delle chiese, pedoni barcollanti impegnati in brevi esodi. Cliché, schemi, regole, liturgie. Si recita. Cronache natalizie. Cronache marziane.

lunedì 8 dicembre 2008

Digerito dallo stomaco di Proust


La promiscuità spazio-temporale di Facebook mi lascia di stucco. Ho ricevuto un messaggio da P.A., un mio compagno delle elementari (avete letto bene? No? ho detto ELEMENTARI, non superiori, né università, né scuola guida, né servizio civile. Proprio elementari, per intenderci: il quinquennio 1977-1982…che è pure l’anno in cui ho visto P.A. per l’ultima volta).
P.A. mi ha aggiunto alla lista degli amici. Dopo un breve botta e risposta - così come se nulla fosse, come se ci fossimo visti al pub l’altro ieri - mi chiede: “di che cosa parla Californication?”. Il fatto è che io avevo scritto scherzosamente sulla mia bacheca di essere ormai dipendente da questa serie tv. Una frase la mia, che è un classico esempio di presenzialismo forzato, che, vedo con sommo piacere, contagia tutti i facebookers, puntuali nel pubblicare le più suggestive e stravaganti attività: dormire, lavorare, spegnere il computer. Esistere (o non esistere)
Perciò P.A. ha sciorinato un dribbling lungo 26 anni e ha scartato (in disordine cronologico) esame delle medie, primo bacio, polluzione notturna, centinaia di uscite cazzeggione con gli amici in carne ed ossa, perdita della verginità, sigaretta d’esordio, spinello d’esordio, primo voto elettorale, esame di maturità, venti esami all’università, tesi e, nei casi più tradizionali: matrimonio, prole, calo del desiderio col coniuge, adulterio, divorzio, domeniche coi suoceri. Che faccio? Mi concentro sulla sua foto e lo scruto: malgrado il pizzetto brizzolato e un bambino (il suo presumo) che fissa l’obiettivo insieme a lui, non posso fare a meno di ricordarmi P.A. con la zazzera bionda, il grembiule blu e il fiocco bianco. Non è nemmeno un deja-vu questo: è una voragine senza fondo che mi risucchia nella mia preistoria: sono stato digerito dallo stomaco di Proust.
Ma sì, caro P.A., che ci vuole. Noi siamo amiconi. Basta un click su facebook, et voilà.
Californication parla di questo scrittore in crisi creativa che rimorchia un sacco di donne ma è ancora innamorato della sua ex con cui ha un figlia adolescente. Vedi P.A. ciò che mi attrae in Californication è l’esplosività dei dialoghi: sboccati, scorretti; la spregiudicatezza delle situazioni, le protagoniste femminili arrapanti ed intellettualmente stimolanti oltre al fatto che sei trascinato in un processo di identificazione che al contempo ti stranisce e ti dà sollievo. Vuoi un po’ della mia merenda? Lo sai che ho dimenticato il sussidiario a casa? Speriamo che la maestra (avete letto bene? No? MAESTRA, non professoressa, dottoressa, sacerdotessa voodoo, padrona di casa. Proprio maestra, la signora Catera) non mi metta una nota. Io ho le dita unte di pizza nell’atrio della scuola Don Bosco coi bidelli che maneggiano cancellini; sono accanto a P.A. perché siamo in fila per due. C’è questa lunghissima rampa di scale (un palazzo di cinque piani, di quelli che gli starnuti rimbombano ) coi gradini giganteschi (io me li ricordo così) di marmo con le venature. Sento gli strilli degli altri bambini che corrono, gridano e puzzano sotto l’arco celeste della palestra (sembrava il planetario quella palestra); l’eco delle voci che si accavalla al rimbalzo atomico e martellante del pallone. Annuso la polvere dei gessetti e quell’odoraccio inconfondibile di Vinavil; ma sì, siamo pure sotto le feste. Il Vinavil, o Santo Dio: l’angoscia allo stomaco per il lavoretto di Natale (tipo le stelle fatte con le mollette e poi colorate con la tempera. La tempera cazzo!), e per la poesia da leggere a casa, tutta circondata da candele decorate, alberetti e pupazzetti disegnati coi pastelli (gli anarchici usavano i carioca). Esiste un servizio di pronto intervento psicanalitico? Ne avrei bisogno. ORA.
Ma dico io, caro P.A., con la cartella che ti ingobbisce la schiena e tua sorella che, alle tue feste, doveva gestire venticinque scalmanati sudatissimi che distruggevano una casa scapicollandosi sui bicchieri di carta appiccicosi di Fanta: come cazzo faccio a condividere con te Californication? E’ come se Fred e Barney de “Gli antenati” discutessero di Formula Uno o Steve Jobs della Mackintosh e Bill Gates della Microsoft dialogassero sull’utilità della clava nell’informatica.
Questa è una cosa fuori dal tempo, è trapassato remoto in tutte le sue coniugazioni. P.A. mi chiede di Californication come se ci fossimo visti l’altro ieri. Questa non è una gita in pullman all’orto botanico o al Museo Pigorini; no, questa è una visita al museo delle cere del rimosso. Me le ricordo quelle scampagnate feriali su questi mostri preistorici a motore (bellissimi: con le scritte colorate e i sedili imbottiti che ci sprofondavi dentro) quando finalmente vedevi i compagni in abiti borghesi e scoprivi che avevano delle gambe, due gambe; scoprivi chi aveva la camicetta da fighetto e chi la madre lo vestiva in tuta così stava più comodo. Di norma c’erano un paio di madri scelte come vittime sacrificali per aiutare la maestra ed evitare spargimenti di sangue sulle strisce pedonali, attraversate come un esercito di gnomi.
Mi ricordo che alle gite si univano due classi. Noi ci mescolavamo barbaramente con la sezione B della maestra Cossu, una sarda, piccola, nera come un tizzone, scorbutica, stregonesca e con la permanente argentata. Ad occhio e croce, oggi la Cossu al Museo Pigorini dovrebbe starci fissa, imbalsamata accanto ai mammuth.
Nella classe della Cossu c’èra quella biondina - capelli lunghissimi, lisci, lentiggini e gli occhi celesti – Annalisa D. – che noi bombardavamo di messaggi d’amore scarabocchiati sui fogli a quadretti; una fata inarrivabile che affiliava i nostri ormoni al mondo degli adulti, specie nelle ore di ginnastica (due classi pure in quell’occasione), quando finalmente si disincastrava dalla sediolina di legno e scorrazzava morbidamente in tuta acetata tra la rete di pallavolo e le spalliere. Una volta la vidi inerpicarsi su per il quadro svedese e fu uno dei giorni in cui finalmente a scuola imparai qualcosa.
Ripensandoci, P.A. non mi stava nemmeno tanto simpatico. Cioè, mi era simpatico all’epoca, quando facevamo le paginette con le “g” e ci prendevamo i pidocchi (lo shampoo MOM: verdissima, vischiosissima lozione bruciaocchi con cui mia madre mi torturò per una settimana). Poi nel corso degli anni, gli intermittenti succhi gastrici proustiani me lo hanno rigurgitato come uno spocchioso bambino figlio di genitori separati che masticava frasi fatte tipo: “volete venire a casa mia per passare un pomeriggio diverso?” e atteggiamenti da romanzo di formazione come venire col cappello di lana a maggio e giustificarsi davanti a tutta la classe: “perché mia madre mi trascura”.
Il botta e risposta tra me e P.A. ha avuto un altro striminzito seguito. Le informazioni che ho, sono che: ha moglie, un bambino, vive in Francia e non ha più la televisione satellitare. Io non ho moglie, né bambini, vivo a Roma e non ho mai avuto la televisione satellitare. L’ultimo strumento che io e P. A. abbiamo condiviso fu l’abaco con gli anellini colorati per imparare a fare i calcoli. Adesso il nostro dialogo dovrebbe ricominciare su facebook da accesso remoto. La vedo complicata. Altrimenti mi farei un giro sul profilo di Annalisa D. e le scriverei ‘ti amo’. Ma non sarebbe la stessa cosa senza i rimasugli di ‘das’ sotto le unghie e senza mio padre che mi chiedeva “che hai fatto oggi a scuola?”, con le sue mani ruvide e callose che mi pettinavano i capelli e i pensieri più paurosi.
La vita è un’invenzione perfetta perché a certe cose devi assolutamente dirgli addio.

lunedì 1 dicembre 2008

Luca si sveglia a mezzanotte


Il primo passo per guarire dall’insonnia è ammettere di soffrirne. Anzi, a dire la verità, è il secondo, perché il primo sarebbe semplicemente dormire. Prima di avere disturbi del sonno, avevo sempre creduto che essere insonni significasse non dormire mai, nemmeno un minuto. Un po’ come Al Pacino in quel bellissimo film di Cristopher Nolan, “Insomnia” (Un noir decisamente paradossale visto che le tenebre non calano mai. Ve lo consiglio!). E invece no. Di solito si dorme un po’; è raro non chiudere occhio per 24 ore consecutive; forse succede se si assumono anfetamine o ecstasy, ma non sono una cima sull’argomento droghe. Ne esistono vari di disturbi del sonno: il mio è crollare dalla stanchezza subito dopo cena, riaprire gli occhi verso mezzanotte e non chiuderli più fino alla mattina. Tossing and turning, come dicono gli inglesi, per ore. Che, tradotto in codice di qualità della vita, significa sprecare una serata, una nottata e pure una mattinata. Equivale ad uscire dall’ufficio, mettersi il pigiama come prova costume per la festa di carnevale, rivestirsi e tornare al lavoro.
Bene. Una volta chiarito che, purtroppo, la non-vita/non-morte del vampiro (con tutto il suo strascico di fascino perverso) non è quella che mi è toccata in sorte, ecco che scatta l’urgenza di mettere a punto una strategia per non costringermi a continue maschere di ghiaccio il giorno successivo. Ci sono vari stratagemmi, di solito queste dritte le trovate nelle homepage dei siti, incastrate fra le chiappe della Arcuri, i consigli dell’astrologo e il link per i social network di incontri romantici. E questo già la dice lunga.
C’è chi consiglia di prepararsi una tisana. Sinceramente, io no; la tisana non fa per me: immaginarmi in brache a intrugliare i fiori secchi di passiflora e tiglio mi sa di sfigato e anche un po’ di frocio. Non per niente se fate una ricerca su google, trovate le ricette di questi infusi su un sito che si chiama girlpower. Non credo nemmeno di avere l’occorrente nella credenza come del resto non ho perizomi leopardati nel cassetto. Pure la camomilla è da escludere: dopo la camomilla per dormire, mi rimane la pancera, “serata d’onore” condotto da Pippo Baudo e un nodo scorsoio. I saputelli del rimedio fai-da-te suggeriscono di spostare i mobili, le suppellettili, i tappeti. Lo farei, ma io voglio solamente dormire e non essere assassinato dal signor Butera del quinto piano per schiamazzi notturni. Il mio medico mi invita a fare una passeggiata dopo cena. Il mio medico non ha idea del quartiere in cui vivo. Dopo il tramonto è una nowhere land e se devo rimanere sveglio, preferisco vagabondare per casa e non finire in questura come testimone oculare di una rapina a mano armata. Il fatto è che io appartengo alla categoria dei cocciuti. Quelli che ci provano: si coricano e aspettano, aspettano e aspettano con un ottimismo davvero invidiabile, di quell’ottimismo che nella vita diurna non ho mai. Per cui: ho detto che adesso dormo, punto e basta.
Scriverei ‘tic tac tic tac’ per simulare l’inesorabilità del tempo che passa, ma la mia radiosveglia è al quarzo e di rumori costanti e affezionati ne sento pochi: per inciso, solo le scorregge del signor Pandolfi del settimo, quando non è occupato a scaraventarsi sul pavimento per rompersi il femore. Una vita spericolata, la sua e la mia: di quelle che non dormi mai.
Dunque, escludendo la boiata di contare le pecore, non mi rimane che ingaggiare un duello con la mente per rispondere colpo su colpo all’anarchia dei pensieri all’assalto. Primo step: le partite di calcio. Indro Montanelli pensava alle partite di calcio prima di addormentarsi - ma adesso è morto quindi non sembrerebbe di buon auspicio. Se ho visto una partita in giornata, comincio ad assegnare i voti ai giocatori in campo. Quando però sto ancora ragionando sulle doti tecnico-tattiche messe in mostra dall’esterno sinistro di centrocampo della squadra in trasferta, vuol dire che il tentativo è già miseramente fallito. In appendice al primo step provo ad immaginare me stesso nell’atto di giocare: passaggio, tiro, colpo di testa, tackle scivolato, litigio con l’arbitro, applausi al compagno di squadra, disapprovazione per un rigore non assegnato. Gol. No, ancora niente. Sono sveglio, sveglissimo. Più di prima. Ma non voglio alzarmi. Nemmeno per la doccia del dopopartita.
Secondo step: il sesso. Ci si può rilassare anche così, sebbene possa suonare come un controsenso. L’importante è pensare, sì, al sesso, ma con un’intensità lieve, giusto un assaggio oculato, fantasticando sui preliminari dopo aver circoscritto una situazione che sia eccitante ma non troppo; che ci sia il prologo stuzzicante ma non l’epilogo. Attenzione, per gli uomini è severamente vietato sfiorarsi il pisello. Sennò è finita. Insomma, non bisogna spingersi troppo avanti, altrimenti diventa fisiologicamente necessario farsi una sega con ulteriore perdita di tempo. Quindi un semplice APSSS: Autoerotismo platonico senza spargimento di sperma.
Se non basta nemmeno questo, passo al terzo step. Ecco che mi appare la galleria dei miei personaggi preferiti, i miei modelli di riferimento. Esempio, mi chiedo: ma Hank Moody di Californication, - che per inciso fa la vita più bella del mondo: scrittore in crisi creativa ma idolatrato, che beve, fuma, va a puttane ed è desiderato dalle donne - cosa fa per addormentarsi quando non ha una supergnocca dentro al letto? E avrei problemi di insonnia se vivessi come lui? Con un balzo di fantasia mi immedesimo nel Grande Lebowsky: ex hippy, disimpegnato, in fuga dalle responsabilità, in accappatoio e infradito. Che farebbe lui? Luciderebbe la sua palla da bowling? E Paperoga? E Zagor-te-nay Lo spirito con la scure? Si farebbe una passeggiata al chiaro di luna nella palude? Ok, sono Bruce Springsteen e strimpello un nuovo arrangiamento di “Born to run”; sono Woody Allen e ritaglio un nuovo ruolo drammatico per Scarlett Johansson. No, meglio di no, la Johansson mi spingerebbe indietro allo step 2 e stavolta del livello ANPCSS (autoerotismo non platonico con spargimento di sperma). Al quarto step decido di uscire fuori dal letto-trappola. Mi alzo e vado in cucina per uno snack e una sigaretta, accendendo una luce fioca per creare un senso di discontinuità col buio. Ottima idea: ho barattato due ore di sonno per un lasciapassare per l’obesità e una wild card per l’enfisema polmonare. Mi affaccio alla finestra e non c’è un cristiano con cui telepaticamente condividere questo mostruoso fardello. Dormono tutti. E questa è la mazzata determinante per il crollo dell’umore. Non c’è niente di peggio che sentirsi soli. L’insonnia è una malattia cronica che si manifesta di notte quando sei per conto tuo. Non come l’osteoporosi, l’alopecia, le emorroidi, la miopia: queste le puoi condividere con gli altri; di giorno ti viene la depressione, chiami il tuo migliore amico e frigni che sei pelato. Ma di notte non puoi chiamare nessuno: è socialmente inaccettabile. Ed è una corsa contro il tempo: devo addormentarmi prima di sentire il rumore dell’autobus al capolinea qui sotto, prima del cinguettio degli uccelli, prima che esca il signor Capone che esce prestissimo ma se esce vuol dire che è quasi giorno. Per Dio, cazzo. La notte è più buia prima dell’alba, come dice Joker. Mi rimetto a letto, le lenzuola sono una bobina di pieghe accaldate, mi sento le rughe sulla faccia, il prurito sul torace: sono lo scarafaggio di Kafka, sono nervoso come un lupo mannaro a digiuno, sono l’uomo da sei milioni di dollari che sente il minimo rumore: il signor Pandolfi che sputa nel lavandino, il signor Capone che stringe i lacci delle scarpe, il signor Butera che avvita la macchinetta del caffè; ne annuso pure l’aroma: è decaffeinato; Butera ha la pressione alta; l’autista sta montando sulla vettura, cip-cip…ecco pure i passeri. Il sonnifero! Sì, lo prendo. Dormo 75 minuti che sono quasi un ciclo intero di sonno, sti cazzi della fase rem; ci ripenso, non ho sonniferi. Che ci faccio coi sonniferi? Mai sofferto di insonnia, io. Scarlett Johansson, nuda, nudissima. No, ecco, mi viene duro. Tra 66 minuti suona la sveglia, se mi addormento fra sei minuti dormo un’ora. Buona un’ora, sì, sarò riposatissimo. Suona il campanello, cazzo, no: chi è? Deve durare meno di sei minuti questa conversazione, chiunque tu sia. E’ Manuela Arcuri che legge l’oroscopo con la parrucca di Paperoga che ha segnato due gol e gli ho messo 7 ma non l’ho schierato al fantacalcio e ha la voce di Bruce Springsteen che però è anche la mia sveglia. Apro gli occhi, AMCST (alzabandiera manifesto con scappellamento totale); miseria ladra, dormivo. Sono felice, dormivo, non è vero che sono stato alzato tutta la notte. E’ un dato inconfutabile, ho dormito. Però, quanto ho dormito? Quando mi sono addormentato? E sono stanco o sono riposato? Ecco, l’altra faccia dell’insonnia, la più atroce: cerchi di ritornare sui tuoi tormenti notturni, all’inseguimento di un segnale di intermittenza; ma è come sfogliare all’indietro un’agenda di pagine bianche, come indagare su un omicidio perfetto. E ti accorgi che c’è stato un momento in cui il tuo essere vigile e il tuo essere incosciente si sono intersecati , ma in maniera anormale, come una seduta di ipnosi. E hai pensato di essere sveglio quando in realtà dormivi. Pandolfi brontola SSPF (senza scorregge per fortuna). Si è rotto il femore di nuovo? A che ora? E come mai non l’ho sentito? Ma ce l’avevo le sigarette?

venerdì 7 novembre 2008

Yes, we can!


Sono due i motivi per cui John McCain non ha vinto le elezioni americane. Il primo è che per diventare presidente degli Stati Uniti bisogna possedere le doti giuste per ispirare Oliver Stone affinché ti dedichi un film, di quelli torrenziali, sulle tre ore, con metà di girato in bianco e nero, l’altra metà a colori, grandinate di immagini di repertorio, flashback, voce off e montaggio asfissiante. Quando esci (allucinato) dal cinema dopo un film di Stone, mentre ti assicuri che i vestiti che indossi non siano nel frattempo passati di moda, hai abitualmente l’impressione di aver assaporato il nettare della sapienza dal Santo Graal di tutti i complotti. Almeno fino alla prossima puntata di “La storia siamo noi”.
Perciò, per diventare Presidente degli United States of America (God Bless America!) bisogna essere carismatici come John F. Kennedy, oppure ambigui, traffichini e un po’ guappi come quel paraculo spione di Richard Nixon o inclini ai magheggi e alle bugie come George W. Bush. Ecco il motivo per il quale, tra il tracagnotto candidato repubblicano e lo stacco di reni di Barack Obama, non c’èra sinceramente gara.
Per cui, confidando nella rielezione tra quattro anni, è assai probabile che verso il 2020 nelle sale troveremo un film firmato Oliver Stone, intitolato “Barack” oppure “Obama” o ancora “B.O.” o forse “Yes I could but I didn’t because I’m a fucking Nigger!”
L’altro motivo per cui John McCain non entrerà alla Casa Bianca è perché non riesce ad alzare le braccia e non avrebbe potuto mai fare il brindisi della vittoria.
Sì, questa è un po’ cattivella, ma dopo la scorpacciata di politically correct di questi giorni, mi serve riprendere fiato.
Sembra che questa sua invalidità che lo costringe a salutare la folla come un playmobile sonnambulo sia l’effetto delle atroci torture subìte in Vietnam. Quando fu catturato, i vietcong scoprirono che John era figlio e nipote di ammiragli e, non so secondo quale codice, per rispetto e riverenza, i vietcong erano pronti a schiudergli la gabbia. Ma sapete come sono fatti gli americani: John McCain disse ai musi gialli che se ne sarebbe andato solo a condizione che tutti gli altri ostaggi fossero stati liberati. I Vietcong se lo guardarono e dissero: Ah sì? SDANGHETE…botte da orbi sulle braccia con forconi, rastrelli e cappelli di paglia. Ed eccolo lì, il povero John con le giacche con la stampella incorporata.
Sono fiducioso per la vittoria di Obama (la cui retorica è mostruosamente efficace se ha colpito anche noi non autoctoni ma schiavi della cultura americana. Sapremmo elencare almeno due punti del suo programma?) ma John McCain non era certo Belzebù. Mi è piaciuta la sua presa di distanza dai neo-conservatori evangelici puritani, antiabortisti, destrorsi del cazzo; quelli per intenderci che nel 2004 in tre milioni deambularono, ipnotizzati come androidi, fino alle urne con le carnagioni rubiconde e i loro culacci flaccidi ribaltando l’esito dei sondaggi e spedendo il malcapitato John Kerry a casa.
Se avesse vinto McCain non mi sarei disperato anche se avrei temuto per le sue braccia anchilosate in un eventuale scambio di strette di mano con Fassino.
Ma, certo, Obama è il cambiamento, il nuovo, il moderno, il progressista il new deal, yes we can!. E’ quello che Veltroni vorrebbe ma non può.
Sono fiducioso. E invidioso perché in America il ricambio della classe politica è obbligatorio. Qui no.
Yes We Can! Quindi. Si può fare. Si può stare zitti ad esempio. Invece di dichiarare che con Obama alla presidenza, sarà contenta Al Quaeda, come ha affermato il senatore Gasparri. Dall’idea che mi sono fatto del onorevole in questione non escludo che abbia digitato su google la parola “osama” invece di “obama”.
Il fatto è che per alcuni, che il nuovo presidente sia un afroamericano, è dura da mandar giù. Ne crollano di certezze e di deliri domestici passati a genuflettersi davanti a qualche busto. E se il Papa si augura che “Dio illumini Barack Obama” (ma si rassegni, Sua Santità, anche se lo illumina sempre un negro rimane), i migliori strafalcioni sono usciti - che sorpresa - dalla bocca ridens dello psiconano Silvio Berlusconi (psiconano è una battuta, tanto per precisare). A caldo ha commentato che è pronto a dare consigli al collega più giovane, segnalandosi per il solito egocentrismo, e per il culto della personalità manco fosse l’odiato (odiato?) Stalin. Non capisco quali consigli potrebbe dare Berlusconi ad Obama considerando che il senatore di Chicago ha vinto le elezioni in America senza avere televisioni, case editrici, giornali, giornalisti, scrivanie frequentatissime dabbasso e mausolei nel cortiletto di casa. Oltre ad un 50 per cento di fedeli decerebrati. A freddo (quindi dopo averci ragionato) eccolo dichiarare, ridanciano, che Barack Obama è bello, giovane e abbronzato. Abbronzato? Ma sì è una battuta, come fare le corna in una foto ufficiale del G8, no? Che c’è di male? Il 50 % di decerebrati avrà sicuramente riso, apprezzato e giustificato, soprattutto giustificato.
Faccio una scommessa. Da qui a quattro anni Berlusconi prenderà in considerazione anche l’argomento dimensione del pene arrivando ad insinuare di avercelo più lungo, più grosso e persino più abbronzato di Obama. Yes he can! A quando un film di Oliver Stone sul nostro premier? Magari potrebbe essere uno spin off di quello su Clinton. Il titolo? M & M.

mercoledì 29 ottobre 2008

Il matrimonio di Lorna


Ho visto “Il matrimonio di Lorna” al Quattro Fontane, uno di questi cinema a misura di cinefilo che assecondano la visione del film, ne coccolano il rituale e ti fanno sentire un fruitore intelligente. Deve essere il banchetto coi libri in prossimità dell’ingresso alla sala, o il bar coi tavolini che fa tanto dibattito intimo. Anche la gente che lo frequenta fa ‘pendant’ con la location. Per cui, ti guardi intorno e vedi questi tipi e tipe con il look trasandato comodo calcolato sblusato, con la borsa a tracolla estroversa e disimpegnata e la sciarpetta un po’ largona. Ci sono le quarantenni con poco trucco e l’acconciatura da affiliata veltroniana, gli studenti con la giacca di pelle e un libro o una rivista per le mani. Insomma una cosa seria, ma non seriosa. E, soprattutto, sono tutti lì per vedere il film. Strano, no?. Non come al Warner Village, specie nei weekend, che ti sembra di andare in una discoteca che fra le sue attrazioni ha anche una sala attrezzata per la proiezione. Ed è più facile trovare qualche mascalzone, tamarro pezzo di cacca che durante il film squarcia il buio con il display del telefonino. Gli altri miei cinema preferiti sono il Nuovo Sacher (per gli stessi motivi del 4 fontane), l’Eurcine e il Trianon (entrambi con sala ad anfiteatro, ideale per i verticalmente svantaggiati come me; entrambi garantiscono proiezioni nitide e accurate). Poi direi la Sala Troisi perché non trovi mai la massa di gente e dopo il film hai tutta Trastevere a disposizione per fare quello che ti pare. I cinema che invece cerco di evitare sono, oltre al Warner Village, frequentato da gente che arriva lì e poi sceglie il film (una persona normodotata fa il contrario): l’Atlantic, per colpa della signora con la permanente alla cassa che sbaglia a dare il resto e dice sempre che il film non è iniziato perché “ci sono i titoli di testa” (ma che sei scema!). I proiezionisti dell’Atlantic sono dei cani patentati e ogni film è una via crucis. Tra gli evitabili devo mettere a malincuore anche il Greenwich che sarebbe carino, ma Testaccio per il parcheggio è un castigo a meno che tu non abbia la macchina di Supercar che puoi lasciar scorrazzare da sola per due ore mentre sei in sala. Nell’elenco inserisco poi il Lux che è questa multisala con le pareti di compensato ad effetto rimbombo: ti vedi un film e ne ascolti sette-otto contemporaneamente. E pure il Madison, che per carità ha di buono che tiene i film fino all’usura della pellicola e fino alla morte naturale di tutti gli attori, così se hai perso un film che ti interessa, lì sei sicuro di recuperarlo. Ma ha delle sale anguste e proiezioni ipersfocate. E per sette euro e mezzo la cosa fa incazzare.

I film dei fratelli Dardenne sono un viaggio nelle deformità delle democrazie occidentali, in quei luoghi in cui le regole amorali e aberranti del capitalismo vengono applicate dai poveri Cristi, e in cui i connotati del carnefice e della vittima sono ambigui: sbiaditi e cedevoli, sono pronti ad essere stravolti da un evento, una presa di coscienza, un tradimento con conseguente ribaltamento dei ruoli. Tutto è in vendita nei film dei Dardenne, persino i neonati (L’enfant), ma soprattutto le coordinate etiche. Esiste una società basata sul mercato e ne esiste un’altra obliqua e intersecante, basata sul mercato nero dove il denaro è in contanti, insanguinato e lurido, e viaggia di mano in mano, senza sosta e in biglietti di piccolo taglio, per acquistare un compromesso, raggirare la legge, garantirsi una’esistenza minuscola. I Dardenne riescono ad infilarsi in una fessura e ad osservare una realtà in cui la morale è drasticamente sottomessa alle leggi dell’economia. A filmarne l’incedere discontinuo e affannato. Un po’ quello che fa Ken Loach ma con una regia meno neutra. Il punto di forza di “Il matrimonio di Lorna” (sebbene sia stato premiato per la sceneggiatura a Cannes) sta proprio nella messa in scena che produce quello scatto che fa la differenza tra una robusta inchiesta documentaristica e un film di fiction che sprizza sangue, sudore e lacrime. C’è sempre lei in scena: Lorna. Col suo corpo, la sua frenesia, la coscienza messa a nudo, i dubbi, i patimenti, i sensi di colpa e la follia. Lorna, insistentemente Lorna, personaggio-attrito fra i molteplici strati della comunità, simile a una ferita che non si rimargina mai perché costretta alla bugia e al sotterfugio, infiammata dagli incontri al buio e dai conflitti interiori che rendono le azioni meno fluide e le facili soluzioni, sbagliate. Lorna come granello nell’ingranaggio che (si) manda fuori giri e costringe un mondo nascosto a mostrare il suo volto ignobile, come una creatura mostruosa che sfiora il pelo dell’acqua. Un film sull’istinto di conservazione, magistralmente reale e realistico senza essere accademico; brutale e diretto ma senza intenti moraleggianti. E’ nelle pieghe del reale, negli intervalli poco sorvegliati in cui lo sguardo fatica a posarsi e dove esplodono le contraddizioni che i fratelli Dardenne costruiscono il luogo del loro cinema rigoroso, carico di dolore ma assolutamente necessario.

lunedì 20 ottobre 2008

La malattia e le donne (di Woody Allen)


E’ facile, su. Lo fanno tutti i bloggers di questo mondo. Ci si siede e si scrive, senza dover aspettare chissà quale ispirazione. Nel segno del relax e senza troppo lavoro di cesello. Il problema è che non mi interessa parlare tanto di me stesso. Equivale a citofonare a qualcuno per dirgli: “Ehi, ho appeso la mia carcassa sul muro del tuo cesso. Puoi azzannarla come farebbe un avvoltoio”. Che potrei dire? Uhm, vediamo. Ah, sì, ecco io appartengo ad una delle categorie più repellenti di questo mondo, gli ex-ipocondriaci. Da piccolo ero terrorizzato dalla possibilità di avere l’appendicite. E adesso che l’ho rivelato qui sul blog, so per certo che sarò costretto ad operarmi di appendicite prossimamente. Perché è vero che sono un ex ipocondriaco, ma rimango un ‘non ex scaramantico’. Per cui è fatta, avrò dolori lancinanti e una cicatrice all’inguine, molto presto. Ovviamente, col passare degli anni sono stato assalito da paranoie ben peggiori che una semplice appendicite. Poi con un bel po’ di lavoro su me stesso, sono migliorato e rientrato nella normalità. Tutti hanno paura delle malattie. Però gli ex-ipocondriaci sono terribili, perché provenienti da un passato in cui temevano il tumore al primo segnale anomalo del proprio organismo, mentre adesso tendono a sdrammatizzare qualsiasi sintomo, specie se riguarda gli altri (ma lo facciamo per rinsaldare le nostre sicurezze e il nostro atteggiamento disimpegnato nuovo di zecca). Per cui abbiamo la tendenza, in presenza di un cadavere, di sussurragli all’orecchio: “Non ti preoccupare, niente di grave è solo un calo di zuccheri!” Stranamente non mi ha mai spaventato l’Aids. Credo perché tendo a non sopravvalutare la mia vita sessuale. Sono due cose che vanno a braccetto. A questo punto dovrei stilare una top 5 delle mie principali paure, ma essendo scaramantico rinuncio molto volentieri. Diciamo che nelle fasi della mia vita in cui ho un umore piuttosto sostenuto, la morte non mi tange granché. Anzi, se le condizioni rimarranno queste, verso i 45-46 anni potrei anche abbandonare questo mondo simpatico e un po’ avaro.
Mi è venuto in mente di parlare di ipocondria perché ho letto sul corriere un’intervista a Woody Allen in concomitanza con l’uscita del suo ultimo film. Quando un giornalista non sa che scrivere su Woody Allen, spara le solite cazzate sul fatto che non si muove mai da Manhattan e che si misura la febbre tre volte al giorno. Lo stani subito un giornalista pessimo quando allunga il brodo con queste curiosità trite e patetiche. Dell’intervista estraggo questo stralcio:


D: Col passare degli anni, lei appare sempre più ipnotizzato dalla bellezza femminile.
R: Sempre stato! Anche quando avevo cinque anni... anche quando ero un bimbo sono sempre stato attratto dalle donne. Sa, io sono molto superficiale... Al contrario di ciò che alcuni potrebbero pensare... Lo so, ci sono molte persone che credono che io sia più profondo... o più intellettuale o più sensibile. Ma non lo sono. Sono superficiale. E uno degli aspetti della mia superficialità è l’ossessione per la bellezza.

In effetti, capita anche a me, che non posseggo nemmeno un centesimo dell’acume intellettuale e della profondità di Woody Allen. Rimanere concentrato su una donna e sulle sue parti più sporgenti o sullo stacco delle loro gambe è una cosa che mi rimane facilissima e di cui non mi pento mai. Non è tempo sprecato. E’ come guardare una partita di calcio; mi ci appassiono e tutto il resto passa in secondo piano. L’arte, la politica, l’economia e il resto dell’universo scalano alla pagina successiva della mia agenda. Persino la paura delle malattie. Sulla superficialità secondo l’occhio maschile e sulla superficialità secondo l’occhio femminile ci sarebbe un po’ da dire, ma lascio in sospeso per il post successivo. Ma essendo superficiale potrei non trovare mai la concentrazione giusta per intraprendere la discussione.


La filmografia di Woody Allen è zeppa di protagoniste femminili belle e indimenticabili. Le mie cinque preferite sono: la Diane Keaton di “Io e Annie”; per la svampitezza, la stravaganza del guardaroba e perché Io e Annie è una commedia romantica meravigliosa che non mi stancherei mai e poi mai di rivedere. E perché anche io ho bisogno di uova.
Poi, Scarlett Johansson di Matchpoint per la scena del bacio e dell’ammucchiamento sotto la pioggia, per la sua espressione assassina, per la semplicità con cui sa cambiare registro nella recitazione ( e per le tette e le labbra carnose, cazzarola!). Scarlett è come la cassiera più carina del supermercato da cui andresti sempre a pagare anche se c’è da fare più fila. Questa non è mia, è una citazione. Mi sa proprio di Woody Allen.
Al terzo posto la Barbara Hershey di Hannah e le sue sorelle, perché ‘nessuno, nemmeno la pioggia ha così piccole mani’. E perché con quel maglioncino collezione autunno 1986 è più sexy di una modella in minigonna.
In Tutti dicono I Love You c’è anche Julia Roberts, ma faccio outing e confesso che al suo sorriso e alla sua avvenenza preferisco di gran lunga il disegno della bocca di Drew Barrymore nella quale trovo anche una maggiore dose di spirito ed autoironia.
Vorrei chiudere con un ex aequo ma invece piazzo al 5° posto la Mira Sorvino, madre, prostituta e attrice hard di La dea dell’amore che per quel film ha anche vinto l’Oscar. Perché la battuta: “Non hai voluto un pompino per il tuo compleanno così ti ho comprato una cravatta” fa troppo ridere. E anche se l’ha scritta Allen, sembra davvero concepita da una come la Mira Sorvino del film.
Per l’ex aequo avrei scelto la Judy Davis di Mariti e mogli.
Ora vi aspettereste che io parlassi dell’ultimo film di Woody Allen, ma non l’ho ancora visto. Per cui vi parlerò del formidabile Il matrimonio di Lorna dei fratelli Dardenne. Ma un'altra volta, sennò qui il post si allunga. E almeno ho già un argomento (anzi due) per il prossimo aggiornamento.

domenica 12 ottobre 2008

Dei concerti in piazza


Le mie cinque canzoni preferite dei Cure sono: In Between Days, Just Like Heaven, Lullaby (adoro il video, poi!), A Forest. Al primo posto c’è Boys Don’t Cry, canzone fantastica la cui metrica scarna conserva ancora un impatto devastante, con la voce insolente d Robert Smith posseduta dal Belzebù adolescenziale. Non conosco i Cure a menadito. Qualsiasi fan scatenato se ne accorgerebbe dalla top 5 convenzionale che ho stilato. Ma li apprezzo enormemente per ciò che hanno rappresentato, per la solennità delle loro atmosfere, per la chiave gotica con cui hanno letto le ansie esistenziali di una generazione, per il romanticismo cupo e nervoso, per il sound esclusivo.
Prometto di mettermi di buzzo buono ad ascoltare i loro primi lavori. Intanto sono andato al concerto a San Giovanni. Uno di questi concerti di piazza ‘patrocinati da’…(nel caso in questione: Comune di Roma, Coca Cola, Mtv). I concerti gratuiti sono una manna dal cielo per chi ama la musica, ma come rovescio della medaglia risultano essere dispersivi ed eccessivamente informali. Mi spiego. Se io pago il biglietto, acquistandolo spesso con mesi di anticipo per vedere un artista o una band, mi reco al concerto con una carica ed un’esaltazione che condivido con il resto del pubblico (pagante). Si crea una sorta di concentrazione, di esclusività, di rispetto e di adorazione verso chi sta suonando sul palco. C’è una simbiosi carnale tra chi fa spettacolo e chi lo fruisce. E c’è una considerazione maggiore per i momenti solenni. Quando Robert Smith e company ripercorrevano il loro (e il nostro) passato snocciolando i vari bis, autentico ritratto di un’epoca, c’era gente che fluiva e defluiva, si distraeva, faceva altro. La stragrande maggioranza delle persone che partecipano ai concerti di piazza gratuiti ci va perché è un evento che ha luogo in città. Sta lì per esserci. E anche per dire di esserci stato. Il concerto diventa un luogo di appuntamento dove spesso si decide cosa fare più tardi. Sono la proiezione in scala delle feste di paese. Tutti escono di casa dopo cena per andare a dare un’occhiata. Sono momenti di passaggio. Quando lo show è a pagamento e hai scelto in maniera premeditata di esserci, lo show diventa per te il principale evento della giornata, il motivo per cui quella mattina hai deciso di alzarti dal letto. L’arte per tutti è una cosa eccezionale ma determina una mancanza di selezione nei fruitori. Se facessero una mostra di Picasso per le strade, tutti andrebbero a vederla. Perché è gratis. A molti di Picasso non fregherebbe nulla né durante né soprattutto dopo. E’ vero che la grande arte arriva prima o poi. Un capolavoro è tale perché riesce a toccare le corde di tutti, anche di chi non ha disposizione né gli strumenti per apprezzarla, né la voglia e il tempo di metterli a punto tali strumenti. E’ giusto. Ma non è giusto allo stesso tempo. E ora che ci ripenso, non credo che alla pischella coatta o alla casalinga in libera uscita, abituata alle pacchianate ebeti della De Filippi o ai voyeurismi di serie C dell’Isola dei famosi, la visione del Guernica susciti un granché. La sensibilità artistica va allenata, cresciuta, coccolata. Se non ti piace non te ne faccio una colpa, ma non venire a rompere il cazzo. Chi mi accusasse di snobismo avrebbe le sue ragioni. Un pizzico di snobismo c’è. Ma c’è anche un’eterna voglia di imparare e una forma di rispetto verso chi ha più talento di noi e ci racconta e ci ha raccontato come siamo. In realtà sei tu, indifferente e presenzialista, ad impedire a me di godermi quello che ho scelto di godermi in santa pace.
Al concerto al Colosseo di Simon & Garfunkel di alcuni anni fa, nel gruppo di persone che erano con me ce n’era una che non sapeva nemmeno chi fossero. Non sapeva nemmeno i loro nomi. Se ti fingi appassionato di musica (e nel momento in cu schiodi le chiappe dalla poltrona per stare in piedi due ore nella calca vorrei sperare almeno che tu lo sia) e non sai chi sono Simon e Garfunkel, è come saper leggere e non sapere chi è Alessandro Manzoni. Ma comunque ti perdono. Ma se durante The Sound of Silence (cazzo di budda, The Sound of Silence) mi rompi i coglioni parlando al telefonino o mi chiami per farmi vedere un mms del cazzo che ti hanno spedito, allora meriti la pena di morte.
Ci sono momenti solenni. Durante il concerto (a pagamento) di Springsteen del tour della Seeger Session nel 2006, un venditore ambulante mi è passato a fianco e mi strillava nelle orecchie “acqua, coca, birra” mentre il Boss ci regalava una versione commovente di The River (The River, limortaccitua, hai capito ambulante del cazzo ignorante, abusivo che nemmeno potresti stare lì a vendere l’acqua?) arrangiata con sonorità folk. Io spero che quell’ambulante filgio di puttana sia morto di fame. Ma tra mille tormenti.
Al concerto dei Genesis al Circo Massimo vedevo persone anzianotte e palesemente a digiuno di musica che si erano portate le sedie da casa e stavano lì non so a fare che. Dubito a godersi il repertorio progressive anni Settanta. Forse avranno mosso le zampe durante l'orecchiabilissima Invisible Touch.
E ancora, sempre al Colosseo, sempre gratuito, la chiusura del tour di Billy Joel. Io adoro Billy Joel ma in Italia non se l’è mai cagato nessuno. C’èra un fottio di gente. Ok. Bene.
Billy Joel chiude lo show con Piano Man che è la canzone che più lo caratterizza come artista e che racconta un mood di sogni infranti ma di illusioni ancora testardamente intatte. C’è un intero pianeta di caratteri, paure, di solitudini che collidono nelle notti non solo newyorchesi dietro quelle note e quelle parole.
Billy Joel è The Piano Man. Dal 1973, o giù di lì, Billy Joel lascia che sia il pubblico ad intonare a squarciagola il ritornello (Sing us a song, you’re the Piano Man, Sing us a song tonight…ecc ecc.). Ecco, io ero l’unico che stava lì a strillarlo circondato da decine di persone ammutolite, alcune delle quali mi guardavano come fossi un alieno. Ero io l’alieno? Billy Joel mancava dall'Italia dal 1990 e me lo stavo finalmente godendo.
Oltre a Piano Man, le mie sue cinque canzoni preferite sono: She’s Always a Woman, Scenes from an Italian restaurant, You May be Right, You’re Only Human e New York State of Mind.


Chiudo:
Ormai è palese che io non riesca ad aggiornare il blog frequentemente. Me tapino, me sanguisuga, direbbe Zio Paperone. I motivi sono che ultimamente sono stato a Londra (ne scriverò). Poi che ci sono cose che scrivo di mio pugno sul mio diario personale, altre che scriverei, ad esempio, solo su facebook (ne scriverò…oddio, facebook…micidiale!), altre che porterei solo in una conversazione con amici intimi e altre che sono da blog. Ecco, ancora non sono riuscito a tracciare con precisione il perimetro che delimita gli argomenti da blog.
Poi questo periodo è stato un periodo del cazzo. Ho lo “shining” a mille. Ovvero sono in una di quelle fasi in cui ho la consapevolezza assoluta di quello che ho fatto e non ho fatto, che sto facendo e non sto facendo. Del perché e del percome. Delle scelte sbagliate e del tempo perduto. Sto cercando qualcosa che riesca a salvarmi la vita. Forse l’ho trovata, e forse no. E di questo non so e non credo che ne parlerò.

venerdì 19 settembre 2008

Wish you were here

And I am not frightened of dying, any time will do, I don’t mind. Why should I be frightened of dying? There’s no reason for it, you’ve gotta go sometime. I never said I was frightened of dying.

(The Great Gig in the Sky)













Immagino la mente come un luogo percorribile, smisurato, pieno di frontiere, di labirinti, di varchi che danno accesso ad altri luoghi sconfinati. Di nicchie insonorizzate dove ogni urlo si avviluppa nel silenzio; di rampe di lancio verso viaggi interstellari. Oltre il tempo, oltre lo spazio. La musica dei Pink Floyd.

Immagino uno scorcio di campagna inglese, un gregge di pecore immobile sorvegliato da un cielo perennemente plumbeo. In sottofondo risuona una litania infantile, una filastrocca innocente, innervosita da improvvisi scatti blues, ferita da ipnotiche pulsazioni psichedeliche: la tastiera di Richard Wright, il basso di Roger Waters, la chitarra di David Gilmour, la batteria di Nick Mason.

Immagino una stanza bianca e sguarnita dentro un’astronave atterrata tra le rovine di Pompei. C'è un letto arrugginito e isolato su cui riposa e risplende un diamante grezzo: la purezza e la follia di Syd Barrett. C'è un posto nella profondità della psiche, imprigionato in un’eco, in cui ogni attimo può essere espanso e ogni suono si propaga solenne, ogni canto è maestoso e ogni pausa nel pentagramma è allucinata e acida. Il mistero dei Pink Floyd.

Immagino un viaggio a ritroso nel futuro e avanti nel passato, dove la mente si acquieta e si intorpidisce, comodamente, e incontri un pazzo sul lato oscuro della luna. Un segmento di tempo unito da due stelle, lungo il quale corri e corri per raggiungere il sole ma lui sta sprofondando, ti sta sfuggendo per risorgere alle tue spalle. Un momentaneo intervallo della ragione dove le anime smarrite nuotano in una vaschetta per pesci e vanno incontro alle solite vecchie paure.

I Pink Floyd: un pianeta deserto nel futuro post-atomico. Un suono risucchiato dall’oscuro spazio profondo che non si arrende alla sua odissea. Fragile e invulnerabile insiste nella sua liturgia lisergica raschiata da una tempesta di sabbia. Cerca la simbiosi con la natura, con la follia, con Dio.

I Pink Floyd come Kubrick, come Antonioni, come Beethoven, come Proust, come Magritte, come De Chirico, come Icaro, come l’enigma.

domenica 7 settembre 2008

Domenica su un piede solo. Anzi no




1) Sto benissimo. Cammino che è un piacere. Ho anche lavato il pavimento. Il piede non mi fa male. L’ortopedico è un fesso. Oppure sono fesso io e così facendo la frattura non si calcificherà MAI. Mi sono ricordato che il citofono non funziona. Se passerà la visita fiscale mi licenzieranno. Dovrò trovare un altro lavoro a stipendio bassissimo. E, come castigo supremo, l'Inps mi toglierà tutti i contributi che ho accumulato finora. Peccato, i soldi in questione erano giusti giusti per un paio di abbuffate dal kebabbaro.

2) Ho trovato il modo per farmi una doccia cristiana senza infradiciare la mia antiestetica benda. Ha lo stesso colore di quelle calze elastiche che usano le vecchiette con le vene varicose. Ed è già lurida, manco avessi fatto la 3000 siepi. La doccia, dicevo: è incredibile le cose che si possono fare con uno sgabello senza essere Fred Astaire. I miei 5 attori/attrici ballerini preferiti/e: Gene Kelly (la scena in cui balla per la strada "Cantando sotto la pioggia" è una delle 55 cose per cui vale la pena vivere). Poi John Travolta, Fred Astaire, , Cid Charisse, Ginger Rogers. Ovvio che Fred Astaire è un ballerino e Travolta no. Però ognuno nasce nell'epoca sua. Diciamocela tutta: il twist con Uma Thurman in Pulp Fiction batte tutto e tutti.

3) Chatto un sacco. E ringrazio tutti quelli che mi fanno compagnia di cui non rivelo i nomi, perché magari non vogliono far sapere che passano a casa il tempo che dovrebbero dedicare ai loro voluttuosissimi e sporcaccionissimi amanti.

4) Un piede rotto esclude una bella fetta (ahahah) di posizioni sessuali. Ma dato che non mi fa male affatto, ho kamatrusato lo stesso. Adesso vi aspettereste la lista delle mie cinque posizioni preferite, ma non so mica come si chiamano. Meglio non esporsi a brutte figure in uno spazio pubblico. Casomai in privato. Poteva andare peggio, decisamente.


5) Ho visto due film e mezzo (che è la metà di cinque) da ieri: The Life of David Gale (voto: ** 1/2). Un po’ macchinoso nell’intreccio. Il regista Alan Parker non è nuovo alle ridondanze. Però il ritmo, sostenuto, dell'investigazione, mi acchiappa sempre, così come i colpi di scena multistrato. Mi ha però colpito soprattutto un’attrice, Rhona Mitra, che vedete qui accanto nella foto. Fa una parte secondaria ma Dio la benedica ora e per sempre.
Ah, dimenticavo! Vorrei precisare che le mie recensioni in questa sede saranno superficiali e cazzeggione.
Comunque, i miei film preferiti di Alan Parker sono: The Commitments, Fuga di Mezzanotte, Angel Heart, Mississippi Burning, Saranno famosi.
Poi ho sbirciato anche Mio fratello è figlio unico (voto **). E’ una sorta di romanzo di formazione sullo sfondo dell’Italia degli anni Sessanta e Settanta tra lotte operaie, comunisti, missini, picchiatori, bombaroli ecc. ecc. La vicenda familiare si appoggia su questo patrimonio culturale che abbiamo visto, studiato o ereditato dai racconti di altri. Dipende dalla generazione a cui appartenete.
Tra Elio Germano e Riccardo Scamarcio, meglio il primo. Di Scamarcio, non capisco perché non si lava i capelli. Però sbaglierei se dicessi che è solamente un idolo delle ragazze e non ha talento. Mi era piaciuto assai in Romanzo Criminale. C'è di peggio nel cinema italiano.
Infine Full Metal Jacket di Stanley Kubrick (voto *****). Mi sono rivisto solamente la prima parte del film, quella dell’addestramento a Parris Island. Formidabile. Volo basso e vi risparmio rotture di palle da cintura nera di cinefilia.
Adoro il sergente di ferro, sboccatissimo, che dice: “Dio ci si arrapa con noi marines”. Mi piace la scena iniziale con le reclute che vengono rasate con la macchinetta e quando si scopre che Palla di lardo è un tiratore eccezionale. E ancora: i soldati che fanno le flessioni e cantano: “Crepa Ho-chi-Min, viva il corpo dei Marines”. E ogni volta che il sergente logorroico ed esaltato li umilia con insulti contorti a sfondo sessuale.

I migliori film sul Vietnam secondo me: Apocalypse Now, Il cacciatore, Full Metal Jacket, Platoon, Rambo (sì, Rambo!).
Faccio outing: non ho mai visto Vittime di guerra di Brian De Palma. Prestatemelo.

Una top 5 su Kubrick è improponibile perché i suoi film son tutti capolavori. Elenco i cinque che mi piace rivedere con più piacere: Shining, Arancia meccanica, 2001, Eyes Wide Shut, Il Dottor Stranamore. Poi ci sarebbe Barry Lyndon che però vi proibisco di vedere in tv. Lo so, sembra un editto bulgaro del solito cinefilo cacacazzi, però dico sul serio. Io ho avuto la fortuna di vederlo al cinema in una rassegna. Vi garantisco che in tv perde il 50% della sua sostanza. Barry Lyndon forse è il più bello di tutti. Forse. Ma solo al cinema.

venerdì 5 settembre 2008

"Spero tanto che sia l'astragalo"


E’ un luogo decisamente confortevole il Pronto Soccorso. Ma sì. C’è sempre qualcuno, a qualsiasi ora. In tutti i Pronto Soccorso del mondo c’è sempre un gruppetto di pazienti in attesa, pure alle tre di notte. Incredibile quanto stia male la gente.
E se non sei lì per qualcosa di veramente grave ne trae giovamento anche lo spirito.
Io vorrei, ad esempio, che i ristoranti cinesi fossero aperti 24/7. Così, per soddisfare lo sghiribizzo di ordinare gli xiao mao di gamberi a notte fonda. Il cibo cinese è più gustoso se lo mangi fuori dal suo luogo deputato. Gli altri posti che vorrei fossero aperti ininterrottamente sono: la videoteca, i bordelli (proprio la casa chiusa, eh. Non mi interessano le zoccole per la strada. Anche se ciò è incoerente col mio essere contro le case chiuse. Ma nemmeno so perché in realtà io sia contro le case chiuse, vabbè. Retaggi culturali. Non so nemmeno perché non sono mai stato con una zoccola. Arivabbè!).
Poi, ancora, un internet point sarebbe comodo da visitare di notte se ti si ‘virusa’ il computer e ti prende una voglia matta di You Tube. Come quinta direi il tabaccaio. Ma voglio proprio l’omino che mi disquisisce sulla differenza tra Chesterfield morbide e Chesterfield dure, non quel self service gelido come la morte che ti costringe a stare di spalle alla malavita per 5 minuti.
Insomma ieri il dio dei blog ha deciso di farmi rompere un piede. Così la faccio finita di tirare i remi in barca e mi metto ad aggiornare questo spazio sgangherato più frequentemente. Niente scuse. Devo stare a casa per 18 giorni. Diciotto non è divisibile per 5. Questo mi fa rodere. Più o meno come il signor Mauro che era in attesa prima di me al PS. Non rispondeva. E io: vai che non c’è e tocca a me. Non rispondeva: vai che non c’è. Il signor Mauro è svenuto, è tramortito, è trapassato in un lurido angolo del parcheggio antistante. Sti cazzi del Signor Mauro, almeno la smetto di aspettare qui come un allocco. E invece ecco il Signor Mauro con la sua colica di fegato che caracolla verso le porte automatiche. Sto rompicoglioni!. Ok. Aspetto. Tanto non è niente di grave. Ho sentito questo scricchiolio tra le dita e il collo del piede; nessun dolore, solo una fitta piccola piccola. Ci ho giocato sopra per un’ora. Sono il re del mondo, io, pfui!
Poi durante la notte, la fitta è tornata per imporre il suo tributo.
Al PS ci sono vari gironi di attesa, specie se sei un codice verde. Lasci la sala d’aspetto e ti inoltri di cerchio in cerchio fino all’epilogo. Prima aspetti che ti visitino, poi aspetti che ti facciano la radiografia. Poi aspetti che il referto viaggi dalla stanza X alla stanza Y. Poi aspetti che ti chiami il dottore, quello vero, quello che decide, non qualche scagnozzo con la maglietta verde a “v” che mostra la pelazza sotto il collo. Poi infine aspetti di essere dimesso. Quando riesci fuori nel mondo reale sembra che hai passato un weekend al Luna Park. Solo che hai aspettato talmente tanto che hai la barba lunga e sei pure stempiato.
La dottoressa che mi ha sbirciato il piede per prima, l’ho conquistata con un nonnulla. Era biondina, acconciatura da militante del partito Democratico alla Festa dell’Unità, occhi vispi dietro gli occhiali rossi poggiati sul naso a gobba. Sottopanni, secondo me, la tizia aveva il suo perché. Ho sfoggiato con classe e sense of humor la mia profonda conoscenza della struttura ossea del piede. Ho passato ben mezz’ora su internet a studiarmi cosa potessi avere. Mica sono uno sprovveduto, io. Prima la spiazzo con: mi fa male qui, dove è l’osso cuneiforme. Poi la ipnotizzo, aggrottando le sopracciglia: però di solito in questi casi è lo scafoide che fa capricci. Lei aveva già capito più o meno che cosa avevo. Ma l’ho messa KO quando con risata grassoccia le faccio: spero tanto che sia l’astragalo, sai che figurone che faccio con gli amici. Ha riso di gusto. Abbiamo scherzato sull’astragalo per qualcosa come cinque-sei secondi. Si è girata pure la vecchina sdraiata nel letto accanto. Se non mi congedava subito le avrei chiesto di sposarmi. Alla biondina, intendo, non alla vecchia palliduccia che aveva un dolore che da sotto le arrivava dritto al cuore. Così sbraitava almeno. La biondina l’ha snobbata alla vecchia. Era pazza di me. E anche del mio astragalo.
Semmai vi dovessero servire, ecco cinque nomi strani di ossa da usare in casi analoghi: Epistrofeo, Vomere, Etmoide, sfenoide, patella. Andatevi a cercare dove si trovano esattamente. E attenti a pronunciare bene “patella”.

Al PS, il personale è suddiviso in colori e in atteggiamenti. Allora: in divisa bianca da pizzettaro ci sono i barellieri-autisti; in tenuta verde acqua della Sardegna trovate le donne delle pulizie; in costume verde scuro sono infermieri o anche dottori appena usciti dalla sala operatoria. I camici bianchi con un sacco di penne nel taschino sono i dottori che ci capiscono, o che fanno finta. Quelli bravi bravi sono in borghese. Sono bravi perché fanno le diagnosi rapide e precise senza paura di sporcarsi di sangue. Però attenti: se sono in borghese vuol dire che: a) stanno per iniziare il loro turno e potete fidarvi; b) hanno appena staccato e potrebbero dirvi una cosa per un’altra tanto se ne stanno per andare e chi s’è visto s’è visto.
Attenti alle maschere poi. Oggi c’era un signore in camice bianco, capelli grigissimi e radi, occhi celesti, carnagione florida e due telefonini. Insomma il look da luminare. Stavo per mettergli in mano la mia vita e quella dei miei futuri figli. Poi mi sono avvicinato e aveva la sigla VOLONTARIO scritta con inchiostro di pennarello rosso sopra le fantomatiche penne. Dentro al luna park lo salutavano tutti come si saluta il ragazzo del barbiere.
Poi ci sono delle figure di mezzo, un po’ infermieri, un po’ dottorini, di vari colori. Sono giovinastri che spiccano per liberatorio senso dell’umorismo. Di solito si salutano così: aho vieqquà che te faccio la radiografia all’uccello! oppure: aho la fai finita de guardà le zinne deaaa roscia in corridoio. Gli atteggiamenti poi. Al PS devi stare zitto e aspettare. Se chiedi ti guardano brutto o hanno da fare. I barellieri sono i più cattivi e con la barba lunga sembrano briganti del Regno delle due Sicilie. Seriosi come brutti ceffi sono anche i dottori bravi con le penne. Impenetrabili. Non cambiano espressione se davanti hanno un infarto, un’intossicazione da lamponi, o una microfrattura dell’astragalo. Le donne in verde scuro hanno sempre l’aria di chi ha ancora due esami di anatomia da fare prima di laurearsi. Sono perlopiù struccate e un po’ dimesse come se si guadagnassero da vivere dando ripetizioni di latino. Gli uomini in verde sono mutevoli. Sbagli sempre. Se li chiami dottore: no, io sono infermiere; se fai: Scusi infermiere, replicano: no sono un inserviente (un inser..che?). Se gli dici scusi può avvicinarmi quella barella dicono no, sono il primario adesso viene il barelliere. Se li apostrofi come "professore" ecco che si voltano verso l’amico e fanno: aho, hai visto che culo quella nova de terapia intensiva. Quindi, attenzione.

Chiudo con cinque cose che mi daranno più fastidio in questo periodo di degenza. 1) Non potrò giocare a calcetto per un bel po’ 2) amo settembre, è uno dei mie mesi preferiti e non me lo potrò godere 3) Ho scoperto che mi piace andare a lavorare anche se bestemmio in sanscrito davanti al computer perché ho sempre troppo da fare. Mi piace stare a casa se scelgo io di starci. Se ci devo stare per forza mi rode parecchio 4) Dovrò aggiornare il blog sennò sono un pusillanime stronzo e anche figlio di puttana 5) Dipenderò dagli altri e io odio dipendere dagli altri.
Ma, rovescio della medaglia: 1) posso leggere in grazia di Dio senza svenire dal sonno col naso dentro le pagine del libro come mi succede spesso dopo cena 2) posso vedermi un film senza darmi i pizzichi sulle palle per rimanere sveglio, scegliendo anche di vedermeli di pomeriggio 3) Non mi sorbirò le cantilene, le frasi, i soliti step e la sbrodolosa routine del lavoro in ufficio 4) Potrò aggiornare il blog 5) Non potrò farmi la doccia perché ho il piede fasciato. E vai, mi laverò, come si dice, a pezzi. Quando sei bambino e odi la doccia, mai che ti rompi un piede.
Ecco questa ovviamente andava nelle cose che mi daranno fastidio. Tremendamente fastidio. Ma poi sarebbero state sei e quelle piacevoli quattro. E non si poteva.
Ah, dimenticavo, la diagnosi: “Frattura base II metatarso piede sinistro”. Che tristezza, come suona male. Niente astragalo. Fanculo.

mercoledì 3 settembre 2008

Summertime


E anche quest’estate ce la siamo levata dal cazzo. Tana libera tutti. Manca poco, ma i timbri nel passaporto di settembre ci sono già. Ne elenco 5: è ricominciato il campionato; le ragazze cambiano colore dei capelli, pettinatura e si iscrivono a Yoga, ad acquagym o a un corso di fotografia ; al cinema si affacciano film decenti e non solo horror o teen comedy di serie Z; al tg non si sentono più quelle espressioni odiose del tipo “esodo”, “controesodo”, “bollino rosso”; ho finito di scaricare quasi 500 messaggi di posta. E sono mancato solamente una settimana. La prima cosa che detesto di più dell’estate è che riesce a contagiare col virus delle banalità anche un povero blogger che si intestardisce a trovare una chiave insolita per scrivere le sue baggianate. Per cui la lettura di questo pezzo vi sembrerà un monologo di Giorgio Panariello che, per mettere due battute in croce, buca col trapano un fondo di barile arrugginito. Panariello è Fiorello comprato al Discount. Ma io odio pure Fiorello che invece è universalmente riconosciuto come bravo. Almeno una volta nella vostra vita avrete sentito qualcuno dire: “Quanto è bravo Fiorello”. Un cazzo. E’ bravo in un paese di animatori, venditori e cultori di reality show come il nostro. Fa le battute e ride da solo. Nemmeno la claque gli sta appresso. Se vi piace Fiorello vi puzza il culo. Non scherzo. Andate a controllare. Fatto? Puzza? Bene. Fine della digressione. Mi serviva per prendere tempo e mettere le mani avanti. Solo una settimana di ferie. Ma fossero state pure due, non avrebbe avuto lo stesso alcun significato. Ma c’è chi ci casca. Davvero. C’è chi organizza le vacanze con l’entusiasmo di chi sta per cambiare vita. Come se bastasse infilarsi un paio di infradito, mettersi i pantaloni più larghi e spostare le lancette della copula un’ora indietro. Ovviamente io parlo dalla sedia girevole di un ufficio. E la moquette, l’aria condizionata, la collega rompicazzo, la macchinetta del caffè e le otto ore di lavoro sono uguali. Ad agosto come a febbraio. E uguale rimane anche l’ottica piccolo-impiegatizia dell’osservatore e dell’osservato. Un’altra cosa che detesto dell’estate è questa pubblicità ininterrotta che gli viene fatta. Mentre a Natale l’impennata consumista è recintata in un breve periodo, in estate dura quattro mesi. Se non vai in vacanza, non vali una ceppa. E’ come non fare i regali a Natale. Se ci fate caso poi, non si parla mai di vacanze in senso generale. Si parla di vacanze al mare. La montagna non è mai contemplata. Se uno si azzarda a dire che passerà le vacanze in montagna viene subito bollato come “out”. Ma io conosco decine di persone che vanno in vacanza in montagna. E vi giuro che sono persone perbene. Il fatto è che la montagna esclude tutta una serie di cliché che con l’estate vanno a braccetto: la dieta, la prova costume, la cellulite, i giochi sulla spiaggia, la canzone-tormentone. Perché, vi chiederete, chi va in montagna forse non ascolta la canzone-tormentone? Sembra di no. Io quest’anno sono stato al mare. Quindi sono “in”. Quindi non rompete le palle. I cinque tormentoni che ho più odiato nella storia dei tormentoni sono: “Viva la mamma” di Edoardo Bennato, “La regola dell’amico” degli 883, “Tre parole” di Valeria nunmericordocomesechiama, “Chihuaha” di nonmiricordonemmenoilnomedibattesimo, “Siamo una squadra fortissimi” di boh. Tutto parte dal presupposto che in estate è vietato pensare. Per cui esistono le letture da sotto l’ombrellone, i discorsi da sotto l’ombrellone, le canzoni da sotto l’ombrellone. Come se a settembre quelli che in agosto hanno letto “I love Shopping” di Sophie Kinsella infileranno il naso tra le pagine di “Il concetto dell’angoscia” di Soren Kierkegaard. Io non ho letto né l’uno né l’altro. Quindi non rompete le palle. A proposito di angoscia, ecco le cinque cose che mi mettono più angoscia in estate. Prima però mi rileggo il pezzo.

Maledetto me, maledetto Panariello e pure maledetta estate. Tutto diventa luogo comune. Potevo scrivere, che ne so, che Venezia è una bella città ma non ci vivrei mai. Che Pippo Baudo è un professionista. O peggio ancora che Fiorello è proprio bravo. Questo non vale la pena leggerlo nemmeno sotto l’ombrellone. Alla prossima.

mercoledì 23 luglio 2008

Evelyn. (quinta e ultima parte)


Confesso di averci pensato. Un flash. C’è Evelyn che entra nel mio appartamento, vede T. sdraiato sul pavimento, capisce al volo tutto e lancia una proposta. La proposta. Quella proposta lì. Ammetto che nel novero delle mie fantasie sessuali non rientra quella che si chiama “cosa a tre”. Non ci rientra perché, nella costruzione della fantasia stessa, dovrei immaginarmi la presenza di un altro uccello oltre al mio. Poiché nelle fantasie ritengo opportuno dare un volto agli attori in scena, non sarebbe un uccello qualsiasi, ma l’uccello di un amico. E in erezione, per giunta. Brrr…! I miei sogni ad occhi aperti hanno un divieto d’accesso affisso a delle stanze chiuse a chiave dietro le quali ci sono i genitali maschili. Non voglio nemmeno passarci davanti a quelle porte. Sono off limits. E nella vita reale quelle porte hanno un lucchetto in più. Nella vita reale, se capitasse, non mi lascerei mai e poi mai coinvolgere in questo tipo di miniorgia (il termine tecnico è ‘threesome’, così, per rispetto dei cultori del genere). Non è solamente una questione fallica: Sì, ovvio, c’è un altro pisello che vaga nella mia stessa orbita, decisamente troppo nei pressi di qualsiasi parte del mio corpo. E non intendo solamente gli orifizi. Un pisello in erezione che non sia il mio è troppo vicino anche alle mie mani, al mio ombelico, ai miei polpacci e persino alle mie nozioni di filosofia. E’ del tutto secondaria anche la faccenda delle misure e del confronto. Voglio dire, si sta lì per fare sesso, non per scatenare un dibattito sulla lunghezza e la grossezza, organizzando per l’occasione un confronto all’americana. E, non ci crederete, non è nemmeno una questione di secrezioni, schizzi, e sgocciolamenti. Certo, lo sperma è sperma (ed anche questa è filosofia). Sia io, che la narrativa tutta, apprezziamo il patto di sangue che ha sempre la sua inarrivabile solennità. Il patto di sangue possiede una sua epica. Per cui, senza problemi, facciamoci un bel taglio e uniamo i nostri polsi recitando slogan di alleanza, unione, fraternità. Tutti per uno e baggianate varie. Ma il patto di sperma no. Quello è fuori discussione. Anche se, se si escludono interventi della Buoncostume, nella suddetta miniorgia quel momento dovrà pure arrivare, a suggello del trasgressivo e affollatissimo amplesso. Per andare fino in fondo nella discussione sull’eiaculazione dovrei mettere in gioco anche altre variabili (ne dico solo due: preservativo e ingoio. Ma le precisazioni andrebbero troppo per le lunghe e io ho un amico svenuto in casa mia). Dunque, è mia premura accantonare lo sperma, che ripeto è secondario (e chi glielo avrebbe mai detto, un giorno, allo sperma che era secondario?) per arrivare al nocciolo (stavo per scrivere ‘succo’). Il motivo principale per cui non farei mai sesso con una ragazza insieme ad un amico è il seguente: le facce. Sì, le facce. Le espressioni, le smorfie, le increspature della fronte, le bocche aperte e affannate, i denti che mordono il labbro inferiore e tutte le altre molteplici combinazioni mimiche, che saremmo, io e lui, costretti a guardare uno nel viso dell’altro nel corso del godimento. Di un mio amico sono disposto a vedere le lacrime. Non avrò problemi ad osservarlo togliersi la dentiera. Sono pronto a trovarmi di fronte alla sua agonia. Vorrò accarezzare il suo volto quando sarà una salma. Ma non me lo fate vedere quando sta scopando. E soprattutto quando ci stiamo scopando la stessa ragazza. Perché arriverà un momento in cui, io e lui, durante questa troppo gremita festa dei sensi, incroceremo i nostri sguardi. Io avrò una faccia da coglione. Lui avrà una faccia da coglione. E non riuscirei a smettere di ridere.



Fortunatamente (solo per questa volta) la vita non è un film hard. Ma sa sorprenderti con delle imprevedibili incursioni nel grottesco che sanno lasciarti di stucco. Per cui Evelyn entra in casa. Rapidamente. Una furia. Lascia cadere tutto quello che tiene in mano. Scavalca il corpo svenuto di T. e si infila di corsa in bagno. Niente scenate, né espressioni di sorpresa: solo i movimenti fieri e automatici di chi sa sempre cosa vuole. Evelyn riesce a spiazzarti anche nelle situazioni cruciali. E niente come un'impetuosa diarrea sa mettere la giusta punteggiatura alle situazioni cruciali. La sento parlare, dietro la porta del bagno. Non capisco cosa dice. Non vorrei, ma per saperne di più sono costretto ad avvicinarmi assumendo la posa di chi sta origliando. Ed è così che apprendo la notizia che Evelyn è incinta. In un trambusto di brontolii scatologici. Mentre lei mi sta devastando la tazza del gabinetto. Sono incinta. Plonf. Non so se il bambino è tuo. Plonf Plonf. Non so se lo voglio tenere. Plonf!Plonf!Plonf! Mi sembra quasi di sentire la puzza. No. Non quasi. Sento la puzza, già prima che Evelyn apra la porta del cesso. La sento vicinissima, come se qualcuno l’avesse ficcata nel mio naso. Del resto, può succedere. In concomitanza della perdita di coscienza per svenimento, che ci sia un rilasciamento muscolare e ci si ritrovi le mutande piene zeppe di feci. Quando Evelyn apre la porta del cesso, T. è alle mie spalle, che mi sventola davanti i risultati dell’ecografia di Evelyn. Con le mutande piene di cacca. Evelyn mi guarda fisso e aspetta che dica qualcosa. T. mi guarda fisso e non c’è niente che io possa dire. Sto pensando alla puzza. Sto arricciando il naso e non penso né al bambino, né al tradimento di un amico, né a tutta questa dannata storia. Solo la puzza. Mi rendo conto di essere in mezzo alla merda. Figurativamente, e non solo.

Un anno dopo.
Evelyn ha deciso di non tenere il bambino. La ragazza di T. ha deciso di non tenere in considerazione le sue patetiche scuse. Io ho deciso di tenere un atteggiamento distaccato sulla paternità del figlio mai nato. Evelyn è sparita. La rabbia di T. nei miei confronti è sparita. E’ sparito anche l’epicentro. Lo capisco dai capelli di T. che mi sembrano più radi nella zona delle tempie. Pure il colorito è un po’ più pallido. Ha l’aria dimessa di chi non ha più cartucce. A volte un uomo assomiglia alla sua delusione come assomiglia a suo zio. Quando era innamorato, o meglio ossessionato da Evelyn, T. abitava dentro l’epicentro di un terremoto. I suoi giorni erano agitati dai nervi, esplodevano di strategie, fiammeggiavano di illusioni. Le notti insonni erano scosse di assestamento in cui raccoglieva le macerie. Ma l’alba lo spingeva di nuovo giù dove la terra si fende e si sbriciola, lo incastrava nelle spaccature di un sogno che ogni giorno vacillava con più impeto, ma senza mai crollare del tutto. Ora, fuori dall’epicentro, T. cammina su una coperta di polvere che ha seppellito tutti i dubbi e le domande rimaste senza risposta. Non mi ha mai chiesto nulla. Si è ammalato di quel silenzio morboso che ti fa sudare freddo mentre sogni. Lo vedo alzarsi per prendere l’ennesima birra. Ha l'andatura e il contegno composto di una giovane vedova. Le sue mani frugano nelle tasche, le gonfiano in cerca di monete. Io lo osservo con commiserazione e con la speranza di vederlo scuotersi di nuovo. Mi soffermo sul display del suo telefono che giace come un intruso tra bottiglie e bicchieri sul tavolo impantanato. Lo fisso con ferocia, come se volessi ipnotizzarlo. Ed ecco che finalmente si illumina, squilla, si riempie di cifre. Evelyn sa sempre cosa vuole.

lunedì 7 luglio 2008

Evelyn. Quarta parte


La vedo scendere dalla macchina, incurante dei suoi movimenti sbadati. Me ne accorgo dal repentino voltarsi di due ragazzi che, appoggiando il suo tacco sull’asfalto, Evelyn ha lasciato intravedere parecchia carne e pelle sotto la sua minigonna. E così adesso siamo in quattro a sapere che il perizoma di Evelyn oggi è verde: Io (me lo dice sempre prima di arrivare, è fatta così la ragazza!) lei e i due fortunati passanti. Io la chiamo malizia involontaria. Del resto gli ormoni sono organi impulsivi come ragazzini ed apprezzano la spontaneità. Questo tipo di malizia è molto più eccitante di quando una ragazza decide di cambiarsi d’abito davanti a te. Quella è malizia volontaria. E chi ne fa uso, non lo sa, ma innalza un separé tra sé e colui che guarda. Non sto parlando di quando una donna si spoglia e sai che da lì a poco inizierete a fare l’amore. Intendo invece quelle situazioni in cui sei talmente in confidenza con una tua amica o con tua cugina, che il proibito non ha più sapore e, vederla sfilarsi una gonna o cambiarsi il reggiseno, corrisponde ad osservare i fuochi d’artificio ad una festa paesana. Li guardi solo con i tuoi occhi, ma sei circondato da una platea di centinaia di persone. E poi i fuochi d’artificio sempre quelli sono. Mica arrapano. Invece, l’indole distratta di Evelyn ti fa tremare le vene ai polsi. Altro che fuochi d’artificio. E’ come se in quel cielo buio apparisse una mappa del tesoro. Ti dà l’idea che il guardiano del Santo Graal abbia chiuso gli occhi per uno sbadiglio e tu sia stato l'unico a vederlo luccicare, quel benedetto calice, a carpirne il segreto divino invisibile a tutti gli altri, persino al guardiano. Evelyn percorre le strisce pedonali con falcate ariose e rapide. Sembra agguerrita e vogliosa. Ha una lettera in mano.



Spalanco la porta e T. è lì. Avrei voluto che l’ascensore precipitasse piuttosto che sopportare quell’espressione. Certo, sarebbe una soluzione piuttosto drastica. Ma scriverei un commovente epitaffio. Lo giuro. Credo che la morte sia un modo eccellente per far sentire in colpa i tuoi amori non corrisposti. Immaginatevi pensieri colposi del tipo: “ah, se gli avessi fatto un pompino adesso non sarebbe in quella bara”, oppure: “che mi costava passare una serata con lui per spiegargli semplicemente che non mi piaceva, invece di snobbarlo?” Morire è molto più efficace che cambiare domicilio e cancellare un numero dalla rubrica. Ti risparmi mesi e mesi di canzoni pop meditabonde ed uggiose che parlano di come lei ti abbia preferito un energumeno più misterioso del deserto. Ed inoltre per un paio d’ore sei al centro dell’attenzione. Gratis. Considerando che quando ti infilano là dentro, sei anche vestito piuttosto elegante, non è detto che Evelyn non ci avrebbe ripensato: “non male questo damerino col viso pallido, chissà com’era a letto”. Non so se Evelyn verrebbe al suo funerale. Di sicuro non rinuncerebbe al suo telefonino durante la funzione. Nei miei sogni più goderecci e macabri vedo Evelyn comporre un numero di telefono in fondo alla navata della chiesa e sento il trillo del cellulare di T. dentro la cassa da morto. Cento a uno che T. avrebbe un’erezione. E anche il prete, guardando il culo di Evelyn sfilare tra i banchi.



Mi dice: “Ho lasciato la mia ragazza. Voglio dedicarmi solo alla conquista di Evelyn” .


Sto per dirgli: “Evelyn sta salendo in ascensore e tra un minuto sarà qui. E’ la mia amante, da tre mesi”.


Sto per dirgli: “Richiama la tua ragazza e confessa. Dille: ‘sono stato pagato a peso d’oro da Candid Camera per organizzare uno scherzo alla mia fidanzata. E’ riuscito. Con quei soldi andremo in vacanza a Parigi”.


Sto per dirgli: “ Evelyn non ti vorrà mai perché sei mediamente brutto, mediamente rompicoglioni, mediamente povero. Non ti incazzare, ho detto mediamente”.


Sto per dirgli: “Ti ho mentito: conosco Evelyn da anni. Lei ama fare sesso con uomini ultrasettantenni sdentati e dopati di viagra, donne in menopausa, animali morti e manichini dei grandi magazzini forniti di voluminosi falli di ghisa. Tu non rientri in nessuna delle categorie suddette”.


Sto per dirgli: “Sono gay e ti amo”.


Gli dico: “Ciao, entra. Dammi il giacchetto. Vuoi una vodka, un whisky, una grappa?”


“Lo sai che non bevo più, mi fa svenire. Come le emozioni forti.”



Mi sembra di avvertire già il profumo di Evelyn. Ogni volta che entra qui si stravacca sulla poltrona, si toglie le scarpe, si accende una sigaretta e sbircia tra le mie cose. E’ una sensazione piacevole quando una donna si sente a suo agio a casa tua. Molte chiedono permesso anche dopo che hanno fatto cento scorregge nella tua vasca da bagno. Evelyn non è così. E non si è mai fatta il bagno qui. Ma stavolta ci sarà un intruso. Sì, un intruso. Cos’altro rappresenta uno spasimante agitato che si tormenta quotidianamente nello scegliere la strategia giusta e non accetta di essere stato snobbato? E’ un ruolo che starebbe di traverso a chiunque.


Solitamente, quando sei attratto da una persona, ci entri gradualmente in complicità, cominci a mettere il naso nel suo mondo, fai delle ipotesi, cuci le toppe, illumini le zone oscure. Le informazioni ti arrivano alla spicciolata. Finché non ti ci metti insieme e hai un quadro pressoché completo. E senza accorgertene ti ritrovi ad organizzarti per accompagnare sua zia ad una comunione. Chi te lo avrebbe mai detto, la sera del primo appuntamento? il drink, il cinema, la pizza e, se sei stato fortunato un bacio sulle labbra, che un giorno avresti aiutato suo cognato a fare un trasloco?


Nel caso dello spasimante sul ciglio di un burrone, invece, sei condannato all'approssimazione, alle paranoie. Fai delle ipotesi ma né il tempo né le circostanze ti permettono di completare, nemmeno parzialmente, il mosaico. Per cui devi combattere sia con i tuoi spettri interiori che conosci, che con questa interruzione di un percorso. E puoi solo immaginare cosa ci sia mai in quel mondo a cui tu non hai avuto accesso, e se proprio quel mondo non sia in realtà proprio la causa del tuo divieto di accesso, oltre alla volontà del suo custode. E rumini, mastichi, digerisci pezzi, ne vomiti altri, altri ancora li sputi. E' come una malattia che deve fare il suo corso ma che dopo ti lascia lì, al tappeto, diverso da prima, con cicatrici che puoi rimarginare solo allontanandoti. Se ti puoi allontanare. Per superare una separazione, la fine di un fidanzamento, la scoperta di un tradimento, devi morire un po’. E quindi andare all’inferno, dare il cinque a Satana e tornare fra i vivi. Per superare questo divieto d’accesso non ti puoi permettere di morire. Perché Satana nemmeno ti riceve, dato che non hai nulla da raccontargli. Gli faresti schifo, e avrebbe ragione. In Paradiso non ci puoi andare perché dopo due minuti scoprono che ti sei fatto mille seghe sull’argomento. E ai cattolici, sulle seghe, guai ad ammetterlo. No. Gli spasimanti snobbati e tormentati sono come i fantasmi. Vagano su questa terra balbettando dubbi. Non esiste esilio. E nessun Ghostbuster ti metterebbe in agenda. Il tuo fallimento possiede un’ignavia di fondo che ti rende un pessimo compagno di conversazione. Il divorzio? sì, parliamone; hai trovato la tua ragazza a letto con un altro? Raccontami, ti offro un drink. Come? Ti piaceva una ragazza e non ti rispondeva ai messaggi? Vattene affanculo. Anzi, se ti avanza tempo, non è che accompagneresti una vecchia signora ad una comunione?


Gli dico: “Evelyn è passata di qui e ha lasciato una lettera per te”.

E poi due suoni sovrapposti: il campanello che suona e la testa di T. che batte sul pavimento. Svenuto.

sabato 28 giugno 2008

Tramps like us...baby we were born to run!


Dopo tre ore di concerto furibonde, imprevedibili, intense, già lo pensavo. Adesso, a freddo, lo confermo: quello del 25 giugno 2008 a Milano è il miglior concerto che abbia mai visto. Non ne ho visti una caterva, ma nemmeno pochi. Il top. E per restare in tema col blog comincio subito con i cinque momenti più emozionanti, sempre in ordine sparso: 1) Born to Run, cantata a squarciagola da tutto lo stadio, con le luci accese e le braccia che ondeggiano. Born to run è l'unico pezzo che il Boss fa sempre quando è in tour con la E Street Band. Non si schioda: prima o poi arriva. E io faccio outing: quando urlo insieme a 60.000 persone "Tramps like us, baby we were born to run", mi si accappona l'anima. Il passato si interseca col presente, quello che sono con quello che avrei potuto e dovuto essere, le cose che ho fatto illuminano pure quelle che non ho fatto e per un attimo mi sembra di essere, come dire, pieno, completo. Ovviamente succederà a tutti, ognuno con la propria canzone speciale. 2) L'inaspettato bis di chiusura con una trascinante Twist and Shout: un regalo dentro al regalo. Invito tutti ad ascoltare Twist and Shout suonata dal vivo dal Boss, ne vale la pena, fidatevi. 3) Bobby Jean, una delle mie preferite in assoluto, eterna canzone sull'amicizia che si impenna col sassofono di Big Man. Fiammeggiante, da groppo in gola. 4) La ballatona struggente e malinconica di Racing in the Street, quasi un momento di riflessione in un concerto senza pause. Con l'aggiunta di una sensazione strana, perché è un pezzo che non conosco a memoria ma mi ci vedo maledettamente dentro; mi capita, con Bruce, di sentirmi dentro il suo mondo anche quando qualcosa mi sfugge, anzi tutte quelle lacune che ancora ho, a causa del suo sterminato repertorio, non intaccano il senso di appartenenza. 5) gli assoli di chitarra: quello di Nils in Because the Night e il duetto/duello lancinante tra le fender di Bruce e Little Steven in Prove it all Night.
[breve inciso: i cinque assoli di chitarra più goduriosi, a memoria: Mark Knopfler in Sultans of Swing dei Dire Straits; David Gilmour in Comfortably Numb dei Pink Floyd; Mike Mc Cready in Alive dei Pearl Jam, Jimmy Page in Stairway to Heaven dei Led Zeppelin; Joe Walsh e Don Felder in Hotel California degli Eagles]


Già ascoltare un suo album ha un effetto taumaturgico consistente, ma un concerto del Boss è una specie di cerimoniale laico che ti ricolloca esistenzialmente. Come la forza di gravità, ti fa precipitare sulla terra e rimette i puntini sulle "i" su quello che sei e che stai facendo. Compi un giro tra i luoghi deputati della sua musica; la strada, la notte, la famiglia, il sogno di una fuga, la terra promessa, ognuno col suo lato oscuro e le sue anime perdute. E ancora le promesse non mantenute e le schegge di vetro di quei sogni infranti che cerchi invano di incollare. E magari ti accorgi che hai vissuto, e vissuto in maniera sostanziale, e ti rimetti a fuoco. Ma queste parole, dette da me, sono solfa e retorica.

La cosa buffa è che dopo mezz'ora di concerto, potresti anche dire basta. Ti ha già dato talmente tanto che ti basterebbe per un secolo. E invece ne hai ancora per più di due ore e quando finisce, ricominceresti immediatamente con altre trenta canzoni, tutte diverse da quelle ascoltate, cantate, saltate e ballate fin lì.


La E Street Band, poi, è la macchina rock più perfetta che mi venga in mente. Un affiatamento inimitabile e, forse, in questo momento storico, come suggeriscono molti che la seguono continuamente in tour, si trovano al loro apice. Mi impressiona Max "Mighty Weinberg", che lassù picchia la batteria, con l'espressione impassibile e la regolarità di un metronomo. Mi diverte Little Steven, che ormai ha il viso svaccato su cui ballonzolano gli occhi vispissimi da figlio di puttana, ma rimane un chitarrista micidiale. Mi esaltano Roy Bittan e il suo pianoforte. E poi Big Man. Che cosa sarebbe la E Street senza la puntualità del suo sassofono che fende ogni spartito e lo rende unico, sera dopo sera, album dopo album? Ora come ora, credo la E Street Band sia quanto di meglio ci sia in giro a livello live.


Ok, su Bruce, che dire? marpione, malizioso, impertinente, instancabile, promiscuo. Sembra quasi un attore porno sul set più che una rockstar. Riesce alternare in un batter d'occhio momenti solenni a quelli cazzeggioni. Se la comanda, davvero. Suda, scatta, si ferma, riparte. Si bacia le ragazze in primafila. Si concede, ti rende partecipe, ti invita a condividere i suoi piccoli riti. Non è l'unico al mondo, per carità. Ma rispetto agli altri riesce a lasciare la sensazione che ci sia maggiore sincerità e spontaneità, anche al netto dell'ovvia reiterazione dei gesti in ogni show. Tutto questo senza mai oltrepassare il confine e invadere la retorica, ché pure il rock ovviamente ha la sua.
Chiudo con la top 5 dei pezzi che non ha suonato e che io avrei voluto:
1) The River 2) Thunder Road 3) Waitin' On a Sunny Day 4) Cadillac Ranch 5) Jungleland


Cazzo. Non ha fatto queste cinque perle ed è il miglior concerto che ho visto? Sì, lo confermo.