lunedì 30 novembre 2009

La lingua rovente di Salisburgo

Freud diceva che le due cose più importanti della vita sono il sesso e il lavoro. In realtà non so nemmeno se tale affermazione corrisponda al vero, e google non mi aiuta a verificarlo. Ma avevo deciso di cominciare il post così, quindi, parto: sesso e lavoro. Detto da uno che per guadagnarsi da vivere se ne stava seduto a fumare il sigaro davanti a un divano a fissare capigliature unte c’è da riflettere. Però è anche vero che se non fosse esistito il sesso, probabilmente Freud avrebbe aperto un chiosco di zucchero filato nel centro di Vienna.

Sono sicuro però che, se fosse vissuto oltre il 1939 (google mi ha aiutato…) non si sarebbe lasciato sfuggire l’occasione di osservare le dinamiche di gruppo che vanno in scena all’interno degli uffici o in qualsiasi altro posto dove è previsto un lavoro d’equipe.

E sono convinto che, tra un trattato sulla masturbazione e un saggio sull’uso dello zucchero filato nel trattamento contro gli stati depressivi, il vecchio Freud avrebbe sentenziato: “non permettere mai al tuo lavoro di limitare i tuoi orizzonti all’interno di quattro pareti, scimmiottando penosi diritti e inseguendo minuscole ambizioni”.

E avrebbe capito che l’imperativo è sapersi vendere. Vendere atteggiamenti, parole, ricatti, finzioni. E ogni ‘vendente’ deve saper individuare il ‘comprante’: quello che se la beve, che non sa osservare, che subisce.

I vendenti sono una macrocategoria che può essere suddivisa in vari microgruppi.

Ci sono i ‘Paraculi’: quelli che con le parole e gli atteggiamenti danno l’idea di lavorare molto più di quanto in realtà non facciano. Sono una specie di parassita che si attacca alle caviglie degli ‘encomiabili’(microgruppo appartenente alla macrocategoria dei compranti, quelli che solitamente lavorano di più ma a cui non viene attribuito il giusto merito), ne seguono la scia industriosa salvo superarli in prossimità del traguardo e davanti alle telecamere.

Solitamente i paraculi parassiti passano il tempo a fare riunioni o ad usare il telefono per effettuare richieste che fanno perdere tempo agli encomiabili e ad accollarsi meriti che non hanno. I paraculi sono quelli fingono di avere un senso del dovere, di essere encomiabili; quelli che sanno ‘non essere al posto giusto nel momento giusto’.

Tra i vendenti ci sono anche i ‘Fanatici ossessivi’. I fanatici ossessivi non fanno parte del gruppo di comando di un’azienda ma riescono ad influenzarne le decisioni usando le armi della superbia e del ricatto, finendo per vantarsi di essere una sorta di leader occulti. Per superbia si intende una esagerata stima di sé e dei propri meriti (a volte reali, molto spesso presunti), manifestata con un continuo senso di superiorità verso gli altri.

Per ricatto si intende l’insistenza e il chiasso con cui il fanatico ossessivo mette in evidenza una mancanza nell’organizzazione dell’azienda affinché essa venga colmata per il suo tornaconto personale. Una sorta di atto di destabilizzazione continuato, durante il quale il fanatico finge di non aver ottenuto ciò che invece otterrà in maniera tripla rispetto ai compranti.

Speculare alla figura del Fanatico ossessivo c’è la figura dell’ ‘Allisciante’, che tra i compranti è colui che si beve le sue cazzate al punto da assumere un atteggiamento ruffiano e genuflettente nei confronti di colui che l'allisciante ha individuato erroneamente come leader occulto per entrare nelle sue viscide grazie, nella speranza, un giorno, di poterne sfruttare la capacità di muovere le fila e di incidere su decisioni e cambiamenti.

Il canale di comunicazione tra un fanatico e un allisciante è protetto dalle ombre dei corridoi, dalla schermata di una chat, dai minuscoli caratteri di un sms, perciò da uno scambio di battute all’esterno dell’epicentro lavorativo, in un altrove in cui un invasato ossessivo può far valere al meglio la sua dialettica torbida.

Il comprante allisciante si convincerà che si tratta di scelte strategiche per il miglioramento della situazione.


Una volta Freud, sulla tazza del cesso, scrisse a Jung:

Caro Carl Gustav, ogni volta che qualcuno userà con te le parole ‘scelta strategica’, grattati le palle e recita una filastrocca antimalocchio.

Tuo Sigmund”.



I vendenti posseggono geneticamente un’astuzia che sa operare chirurgicamente nella scelta delle amicizie all’interno dei compranti. Questo è essenziale per impedire il compattamento dei compranti, i quali, se si alleassero, farebbero saltare i piani dei vendenti che sono: lavorare meno, ottenere più giorni di ferie, mettersi in prima fila nell’attribuzione dei meriti, ottenere premi in denaro, natura, cesti natalizi.

Ovviamente, per un comprante, persino per un encomiabile, stringere amicizia con un vendente, sia esso parassita o fanatico ossessivo, comporta il rischio di ritrovarsi nella categoria dei ‘Grotteschi’. I Grotteschi sono coloro che, pur irreprensibili dal punto di vista lavorativo, eclissano la loro identità dietro quella dei vendenti e impediscono ai compranti di tradurre la coscienza di classe in rivoluzione.

Il grottesco è infatti amico sia di un comprante che di un vendente, creando disagio al primo e favorendo il gioco del secondo, creando un’interruzione nel gruppo buono a favore di quello cattivo.


Una volta Sandor Ferenczi, mentre strofinava la sua bambola gonfiabile con una spugna insaponata, elaborò una lettera che avrebbe scritto a Freud una volta che si fosse asciugato le mani:

Caro Sigmy.

Innanzitutto ti suggerisco di non annusare questa mia, in quanto ci ho sbadatamente fatto cadere della cocaina e non credo di essere riuscito a sniffarmela tutta, per cui il foglio potrebbe contenerne tracce.

[…] questa teoria che suddivide i gruppi di lavoro in ‘vendenti’ e ‘compranti’ non mi convince, sebbene ci abbia studiato su parecchio. Mi chiedevo se, in quel bordello che frequenti il martedì a Salisburgo, ci potesse essere una ragazza disposta a fare da prestanome come autrice del saggio per prevenire il dissenso fazioso di quei merdosi drogati della critica accademica”.

Nasalmente con te

Sandj



Può succedere che, casualmente o per merito di un comprante più anarchico e illuminato (della categoria degli ‘Indispensabili’) il gioco di uno dei vendenti venga scoperto.

Se il vendente è geneticamente astuto saprà rigirarsi la situazione a suo comodo, facendo finta di entrare nel gruppo dei compranti, persino in quello degli encomiabili, pur proseguendo ad agire palesemente come vendente, perpetuando i suoi vantaggi con la complicità involontaria di un’altra categoria di compranti: i Supervisori Guerci, i quali a loro volta si dividono in Supervisori Guerci Logorroici (SGL) e Supervisori Guerci Taciturni (SGT o ‘sergenti di piuma’ secondo una definizione colorita nata in un bordello austriaco ai primi del Novecento).

Il Supervisore Guercio Logorroico è un sedicente psicologo autodidatta che,pur accorgendosi degli atteggiamenti controproducenti di un vendente, ne minimizza il tornaconto individuale in nome di un presunto giovamento collettivo. Considera cioè i vendenti come una sorta di male necessario che comunque per la legge dei grandi numeri non intralcerà il cammino dell’azienda verso un futuro radioso.

L’effetto collaterale numero uno della presenza di un SGL in un ufficio è lo sproloquio. Spesso un SGL condivide con un Fanatico ossessivo la convinzione di sentirsi Dio, o più furbo degli altri. Ma mentre un SGL auspica un miglioramento collettivo, un leader occulto pensa solo alle sue tasche e alla sua libido. Entrambi tendono a parlare a voce alta e a fare riunioni.

Il ‘Sergente di Piuma’, pur essendo uno psicologo migliore del SGL e pur convinto della necessità dell’eliminazione di un vendente per consentire un armonioso prosieguo del lavoro, conserva delle remore umane. Vorrebbe agire nel concreto, con cinismo, ma si trattiene dal farlo. E’ di piuma, dunque e non di ferro, pur essendo un osservatore acuto e consapevole.

Il rischio numero uno per un Sergente di Piuma è finire nella categoria dei Grotteschi.



Quindi, ricapitolando:


VENDENTI: Paraculi, Fanatici ossessivi

COMPRANTI: Encomiabili, Alliscianti, Grotteschi, Sgl, Sergenti di Piuma, Indispensabili



Con una precisazione. Gli alliscianti, nel loro diabolico perseverare la complicità con un Fanatico ossessivo e i Grotteschi nella loro debolezza che li spinge nelle grinfie dei Paraculi, finiscono per (de)meriti nella categoria dei vendenti. Sono colpevoli senza carisma, controproducenti senza astuzia.



Gli indispensabili sono coloro che hanno uno spiccato senso dell’osservazione, capiscono che il loro senso del dovere, la loro sensibilità e il loro senso della responsabilità possono ritorcersi contro.

Si accorgono della disonestà dei Paraculi, dello squallore dei Fanatici ossessivi, della trappola in cui finiscono i Grotteschi, del basso profilo degli Alliscianti, della confusione mentale degli Sgl, del buonismo inutile dei Sergenti di Piuma. E sanno di sostare su un crinale. Possono precipitare o salvarsi.


Per loro vale il virgolettato di cui sopra: “non permettere mai al tuo lavoro di limitare i tuoi orizzonti all’interno di quattro pareti, scimmiottando penosi diritti e inseguendo minuscole ambizioni


Per loro vale il rilievo empirico effettuato da Jung e così riportato a Freud che lesse e conservò la lettera dell’allievo nel suo quaderno di appunti “Le mie perversioni preferite”



Caro Maestro

Sono costretto a contravvenire ad una regola fondamentale della seduta analitica.

Ho qui un paziente che rientra nella categoria degli Indispensabili, secondo la ripartizione teorizzata da Olga ‘la lingua rovente di Salisburgo’, che per bruciori allo sfintere vorrebbe accomodarsi sul divano a pancia sotto.

Ho acconsentito, ma sentivo il dovere di avvertirla.

Analmente devoto

C.G. Jung

martedì 6 ottobre 2009

Affittasi appartamento

Affittasi appartamento zona San Giovanni/Manzoni. Camera angolo cottura bagno vista panoramica. 550 euro. Tel. ****

Prima telefonata. Risponde una signora anziana.
- Salve. Ho letto l’annuncio dell’appartamento a San Giovanni, sarei interessato, posso prendere un appuntamento per vederla?
- Ma è per lei o per una ragazza?
- Per me.
- Ah! Uhm. E che lavoro fa?
- Lavoro per un’azienda editoriale che vende servizi ai canali televisivi
- Eh?
- Faccio il giornalista
- Ah. Uhm. Richiami domani sera. La signora che ci stava si è portata via le chiavi.


La vecchina possiede probabilmente un curriculum da portinaia, ed è poco avvezza a quei mestieri che non si descrivono con una parola secca: idraulico, fornaio, elettricista, magnaccia. Appena ho letto l’annuncio su Porta Portese ho avuto subito il sospetto che fosse un appartamentino adatto a una squillo, ma considerando il prezzo e la zona, ho pensato di fare comunque un tentativo. Questo appartamento me lo immagino più come una mansarda, un buco da 20 mq coi bacarozzi striscianti dietro la carta da parati, l’odore stantio di una videoteca porno senza finestre e una abat jour col coprilume spelacchiato sul comodino.

Seconda Telefonata. Risponde la stessa persona.

- Salve. Ho letto l’annuncio dell’appartamento a San Giovanni, ho già chiamato ieri, sarei interessato, posso prendere un appuntamento per vederla?
- Ma è per lei o per una ragazza?
- Per me.
- Ah! Uhm. E che lavoro fa?
- Lavoro per un’azienda editoriale che vende servizi ai canali televisivi
- Eh?
- Faccio il giornalista
- Ah. Uhm. Richiami lunedì, che torna mia figlia.


La zona San Giovanni è affollata di prostitute. Questo lo so grazie alla pagina con l’elenco delle massaggiatrici sul Messaggero che è stata per anni una delle mie letture preferite. Una lettura rilassante, essendo un elenco di annunci, e una miniera d’oro per fervide fantasie. Dopo un po’ si comincia ad entrare in confidenza con il lessico scarno che in tre righe cerca di descriverti il tipo di prestazione che ti aspetta: esplosiva, completa, piedini dolcissimi, giochini meravigliosi.
Altri termini in voga negli annunci: statuaria, senza taboo, severa (per chi ama il siparietto padrona-schiavo), massaggio cinese, snella (questa mi è sempre piaciuta, perché per anni l’immaginario delle prostitute visualizzava quelle matrone ciccione sedute a via di Tor di Quinto su una sediola di legno accanto al fuocherello. Sono personaggi che ormai sono stati spazzati via ma che rendevano il ‘puttan tour’ l’equivalente di un safari felliniano). Sapere che troverai una snella è una garanzia, sebbene la snellezza sia relativa e trattandosi di vendita del corpo, è anche normale gonfiare il prodotto o, nel caso in questione sgonfiarlo. Mi fa ridere quando leggo la parola “disponibile” e penso: ci mancherebbe altro. Come se su un ipotetico annuncio di una funzione religiosa scrivessero “è prevista la comunione”. Qualcuna scrive anche “coccole”. Credo che sia per tranquillizzare il cliente timoroso di trovarsi una belva feroce che ti scaraventa sul letto e cinque minuti dopo ti dà un calcio in culo dopo averti spillato 100 euro . La parola coccole presuppone una certa calma, un incontro di sesso con tisana e chiacchierata incorporate, e curiosità sul cosa farai domani, come va il lavoro e fammi vedere una foto dei tuoi bambini. Insomma una scopata in santa pace, parcheggio blu permettendo.


Terza Telefonata. Ancora la vecchia

- Salve. Ho letto l’annuncio dell’appartamento a San Giovanni, ho già chiamato ieri, sarei interessato, posso prendere un appuntamento per vederla?
- Ma è per lei o per una ragazza?
- Per me.
- Ah! Uhm. E che lavoro fa?
- Lavoro per un’azienda editoriale che vende servizi ai canali televisivi
- Eh?
- Faccio il giornalista
- Le passo mia figlia
- Ah, è tornata! Grazie mille


- Sì?

- Salve. Ho letto l’annuncio dell’appartamento a San Giovanni, ho già chiamato ieri, sarei interessato, posso prendere un appuntamento per vederla?
(giuro di aver ripetuto sempre la stessa frase e sempre con lo stesso tono di voce)

- Ma è per lei o per una ragazza?
- Per me.
- Ah! Uhm. E che lavoro fa?
- Faccio il giornalista
- No, guardi NOI NON ABBIAMO BUONI RAPPORTI CON I GIORNALISTI. Arrivederci e buona ricerca.

Ecco, non so se mi ha fatto più ridere la mia disperata insistenza conclusasi con questa frase da rotocalco o la frase in sé. Per qualche minuto mi sono anche vantato con me stesso: al telefono devo proprio sembrare uno di quei reporter cazzutissimi che stanno portando avanti un’inchiesta sul campo. La signora avrà pensato di finire in una puntata de “Le Iene” con la voce contraffatta e le immagini supersgranate. Forse nemmeno era un appartamento per le prostitute, chissà. La voce della figlia suonava più come quella di un usuraia, una cravattara come si dice a Roma. Ma certe convinzioni è giusto conservarle e quindi so che per qualche giorno ho sfiorato l’ingresso in uno di questi luoghi leggendari, in cui, quando sei un adolescente, vorresti capitare per sbaglio o visitare solamente per vedere come sono fatte le ragazze, un puttan tour casalingo alla fine del quale poter scegliere la tua preferita.
Sarei proprio curioso di conoscere la prossima affittuaria di quell’appartamento. Sarà una frizzantissima moretta? Una severa con strepitoso decolletè? O una simpatica (due risate non guastano mai…) bolognese (da cui la barzelletta sui tortellini…)?
Meglio non indagare. Niente giornalismo d’inchiesta. Non si sa mai, potrei suonare il campanello e trovarmi di fronte una “Trans nera grandissime emozioni”. Quel grandissime lascia davvero poco spazio alla fantasie. E camminare rasente il muro con tutti quei bacarozzi non sarebbe davvero un’esperienza da sballo.

domenica 13 settembre 2009

Canne e torsi nudi

Una cosa era certa: nel corso della serata mi avrebbero passato una canna e io avrei rifiutato. Non è facile rifiutare una canna. E come lasciare un amico. Che gli dici? Ho bisogno di vedere altri uomini? Non che sia imbarazzante, però quando rifiuti una canna, ti notano, perché rendi discontinuo un rituale. Durante il cerimoniale del fumo è sottinteso che tutti debbano partecipare. Cazzo, ci stiamo drogando qui, è una cosa seria. Per questo, durante la Messa non è che il prete va a offrire l’ostia tra i banchi, ma sono i fedeli che si recano all’altare. Altrimenti, come potresti rifiutate l’ostia senza passare per un peccaminoso miscredente? E che ci sei venuto a fare in chiesa se non ingoi il corpo e il sangue di Cristo? Per questo i cerimoniali cattolici sono di una perfezione teatrale assoluta. Troppi secoli di canne dovranno passare, per avvicinarsi alla perfezione di quel meccanismo. E poi, c’è un comandamento che recita: “la canna si passa e non si chiede”. Nessun comma, invece, è stato ancora pubblicato sul rifiuto della canna. Nemmeno puoi dirlo prima che non hai intenzione di fumare. Non si può, non è previsto dal rito. Rifiutare una canna è come andare a un matrimonio in jeans e scarpe da ginnastica. Ti notano. Quando le canne non le rifiutavo, non è che poi ne traessi beneficio. Non ne ho mai tratto beneficio. Anzi. Una volta mi ha scatenato un attacco di panico, ho perso i sensi, avevo il cuore a tremila. Certo, dentro c’era tutta marijuana, ma vaglielo a spiegare a quello che certosinamente ha ammucchiato, squagliato, rollato, acceso, aspirato. Quello che gira la canna è il number one della fase della serata in cui, per un tacito accordo, ci si allenta, tra sorrisi e ammiccamenti, secondo uno schema ben consolidato. Dopo tanti anni ti rendi conto che è una grossa bufala, una simulazione di libertà e clandestinità. Frottole. Non scambierei più un minuto di lucidità con un grammo di hashish. Ormai è roba da pischelli che almeno non sembrano patetici. Quando vedo ultratrentenni, madri di famiglia con l’abbigliamento ormai inopportuno e il culo svaccato dichiarare che ogni tanto ci vorrebbe una canna, penso subito: “spero di non essere lì quando accadrà”, perché è uno spettacolo pietoso. Meglio la chimica, le pasticche, il valium. Più decoroso, e non devi aprire le finestre. Cinquantenni col riporto bianco e i mocassini che si danno un tono sfiammeggiando un tozzetto di fumo; oppure zitellone con pappagorgia incipiente che si appoggiano di fianco sul divano, si levano le scarpe e mugolano aspettando il loro turno. Inadeguati. Per farsi le canne bisogna avere l’età giusta, il fisico giusto, l’abbigliamento giusto. Non ti puoi fare una canna in giacca e cravatta, se sei presbite, se hai gli addominali flosci, se sei calvo (non rasato, rasato va bene), se hai passato la giornata tra scartoffie e pannolini, se l’ultima volta che hai letto che dopo una certa età devi controllare la prostata ti sei ricordato di ricordartelo. Il fatto è che quando rifiuti di farti un tiro, non è che ti porti appresso il tuo curriculum di giovinastro scavezzacollo che una volta si faceva le canne. Conta il presente. E il presente dice che tu sei uno sfigato, un po’ asociale, che passa molte serate in casa, ha un lavoro che non lo soddisfa e una vita sessuale frustrante. E’ un “chi ti credi di essere?” col segno cambiato. Agli occhi delle femmine del gruppo fai la figura del rammollito. Chi rolla e squaglia è il guerriero con cui fare un figlio, che sarà vigoroso, cazzuto, fumato e parecchio figlio di mignotta. Tutto questo lo pensavo in attesa che aprissero la porta di ingresso. Arrivare tardi a serate del genere ti fa sentire un intruso. La cena è storia ormai, e hai mancato il momento per sfoggiare un po’ chi sei veramente, e metterti al riparo dai giudizi. Se arrivi con gli avanzi nei piatti, le macchie di vino sulla tovaglia e le fiammelle della candele dondolanti come unica fonte di luce, sei perduto, non puoi passare inosservato e forse dovresti farti controllare la prostata.

La mia amica mi accoglie con uno strascico di risata, prova inoppugnabile che ci si sta allentando a dovere. Dico: “ah, siete sul terrazzo”, e lei: “certo, come sempre e tu sei l’unico con la maglietta”. Ecco. Tanto per mettermi a mio agio, mi ricorda che sta avendo luogo un rito, e ogni rito esige una maschera. Tanto per farmi sentire a mio agio, mi sta dicendo che dovevo uscire a torso nudo da casa e che se da lì a cinque minuti non mi toglierò la maglietta sarò il solito che non riesce e lasciarsi andare in un coinvolgimento coinvolgente. Questa me l’ero persa, cazzo: la maglietta. Ero troppo concentrato sulle canne. Esco in terrazzo. Tutti gli uomini sono a torso nudo e le donne sono tutte, tutte, sedute a gambe incrociate, tipo posizione yoga. Si stanno facendo una canna. Imprevedibili. Quello che ha squagliato, rollato, acceso, aspirato lo noti subito. La ragazza che sta fumando in quel momento, sta aspirando e strizza gli occhi, ascoltando con devota concentrazione i discorsi profondi di un tizio. Lo guarda come se davvero stesse dando sostanza al suo momento: - sono allentata, libera, sto fumando dell’ottimo fumo, cioè, alla fine di una gustosa cena (etnica), tra gente un po’ alternativa, cioè, e partecipo a questa condivisione cioè, di pensieri, cioè, opinioni, fuori dagli schemi, in una dimensione che cioè finalmente è la mia, cioè.

E annuisce. Si sta proprio facendo una canna in una serata senza difetti. Per lei il sole oggi è sorto e tramontato esclusivamente per questo.

Io ho altri problemi. La maglietta. Se adesso non mi tolgo la maglietta, ci faccio una figura da cazzo che si impennerà nel momento in cui mi passeranno la canna, e io dirò “no, grazie!”. Sono circondato. Ma uno che nella vita fatica per toccare un livello minimo di dignità, può sopraggiungere in un momento del genere e togliersi la maglietta? A serata iniziata, a cena conclusa, con tutte le femmine con le gambe incrociate e le infradito illanguidite fra le gambe del tavolo? Il fatto è che se sei l’unico che tiene la maglietta, stai a tuo agio più o meno come se all’improvviso ti mascherassero da testimone di Geova e, col calzino bianco che occhieggia dal risvolto dei pantaloni e l’opuscolo in una mano, ti costringessero a ballare sul cubo. Ma se decidi di tenerla c’è il rischio enorme che qualcuno ti indichi, in un momento di pausa, ribadendo “ma sei l’unico con la maglietta”. E’ semplice. Se sei a torso nudo sei rilassato e fico, se tieni la maglietta ostenti involontariamente disagio.

Nel frattempo, prima di sedermi, voglio capire la direzione del passaggio della canna. Senso orario o antiorario? Così mi sistemo nella direzione opposta e spero che prima che il giro termini succeda qualcosa: si esauriscano tutti gli accendini, inizi a piovere, ci sia una qualsiasi calamità naturale, compresa un’insurrezione delle infradito e delle magliette ammucchiate chissà dove.

La ragazza che ha trovato una dimensione, con gesto calcolatissimo e allentatissimo allunga il cartoccio fumante e fragrante alla sua destra. Afferro una sedia e mi accomodo alla sua sinistra. Per far vedere che sono un po’ fico anche io, sistemo la sedia al contrario e mi appoggio con i gomiti sullo schienale. Certo, sembro un po’ un cowboy in un western anni cinquanta, ma mi garantisce un minimo di protezione. Urge prendere tempo, calarsi nel buio, scomparire. Quello che sta fumando adesso ha una faccia da cazzo e atteggiamenti da leader e un kit di ordinanza che prevede: chitarra, capello spettinato, addominali rigidi, occhi azzurri e niente peli sul torace. E’ lui che ha cucinato l’etnico e rollato la canna. Altro da dichiarare? Che ne so, sei pure ricco e col cazzo grosso? Hai pubblicato due romanzi, sei cintura nera di qualcosa, fai l’attore, c’hai tre amanti, me voi menà? Quando vedo che passa il mozzicone bruciacchiato e ormai minuscolo della canna e si accinge a rollarne un’altra, giuro a me stesso che la prossima volta rimango a casa e mi faccio cento fotografie in cui sto fumando una sveglia di canna da mezzo metro, a torso nudo, col tatuaggio sulla schiena e le pubblico su facebook, dopo accurata manipolazione con photoshop. Ok, si ricomincia, penso. Dopo un paio di boccate sapienti, Mister Terrazzino 2009 porge lo spinello (sì, me so rotto di dire canna, almeno se devo sembrare sfigato, uso pure il termine sfigato!) alla mia amica, che nel frattempo, guardando Il Guerriero del Calumet, ha sbattuto talmente forte le ciglia che ha sparecchiato pure la tavola della signora dell’ultimo piano. Il giro è stato invertito, io mi abbraccio alla mia sedia da cowboy come se stessi per annegare.

E la ragazza che ha trovato una dimensione, con la voce impastata, fa: “no, no, dalla a lui. Lui non ha ancora fumato. Lui. Quello con la maglietta”.

In cielo nemmeno una cazzo di nuvola.

giovedì 6 agosto 2009

Dialogo

Senti…
Dimme..
sabato mattina
vado a sceglie a corda pe impiccamme a ferragosto
me accompagni?
e che ce bisogno dea corda...
sì, voglio uscì de scena a penzoloni
se mettemo na bella giacca imbottita de pietre e se ne annamo ar centro der lago cor pedalò…
è nattimo!
ma soffrimo troppo
...a parte che al lago manco c'è bisogno de e pietre
scusa allora famola scenica
famo parla de noi
tipo se buttamo da sopra er colosseo
ma verso dentro o verso a strada?
verso a strada
co i turisti atterriti
ambè, sennò ce se magneno li gatti
cosi parleno de noi pure lamericani
famo uno ar colosseo e l'artro a caster sant angelo
così le tv devono pagà er doppio dei giornalisti
èvvero...armeno damo da magnà a quarche poveraccio

sinnò famose esplode davanti montecitorio
diventamo eroi
però se esplodemo poi nun ce riconoscono
e de milite ignoto già ce ne sta uno
ma si chiamamo andrea e ie famo filmà tutto?
andrea c'ha a sciatica, nun te ce viè
ce se rifa a gamba nova co i soldi che pia
ie famo mette quella de mihajlovic cosi tira pure forte
ahahaha
ahahahaha
ma er video poi? o mettemo su feisbuk?
ma no direttamente alla rai
a fininvest
deve parla er monno de noi
mediaset...a fininvest nun esiste più
armeno semo varsi a qualcosa
ah sì, me so sbaiato
prima mannamo un messaggio a tutti
er giorno de feragosto vedete er tiggì
se se
pensa si nun lo vede nessuno
ahahahah
poesse
pensa che morte inutile
magari pensano che semo morti pe n'ideale
ma noi nun c'avemo ideali
pensa se ar funerale nun viè nessuno
co sto callo, nun viè nessuno no
anzi ce venghino a profanà a tomba
e così diventano famosi loro
pensa che presa per culo
ahahaha
ma de chi era a tomba?
boh
de due
du poracci
manco ce scrivono i nomi
mettono na targa co scritto...du poracci
senza foto
pure senza targa
scritto a penna
ricordamose de spegne er cellulare prima de ammazzasse
perche?
se scarica a batteria
ahahah
che cazzo te frega tanto mori
ah èvvero.

martedì 28 luglio 2009

La notte di Bruce


Bisognerebbe vederne almeno 3 o 4 di concerti del Boss, per ogni tour. C’è chi lo fa, e un po’, anzi molto, lo invidio. Perché dopo le ‘tue’ 30 canzoni per 3 ore, sai che ce ne saranno altre, la sera dopo, in un’altra città. Diverse. E che quella scaletta conterrà proprio quei pezzi che tu desideravi ascoltare. Certo non ci pensi quando sei nel pieno dell’ebbrezza, con le luci dello stadio a giorno a saltare e ballare e strillare come un forsennato “Twist & Shout”. Sei stremato. E lui, lassù sul palco avrebbe ancora un paio d’ore di benzina e sudore da versare.
Bruce. Roma, 19 luglio 2009, ore 22.30: Uno – Due…BADLANDS…L’avrà cantata un milione di volte, eppure sembra che quella che stai ascoltando sia la versione definitiva, quella che ti salverà la vita. Badlands è una canzone sulla resistenza, la fuga e la ribellione. Come Thunder Road. Che quando iniziano le note, vorresti avere una bottiglia per versarci le tue lacrime e non vedi l’ora che lui stia zitto e tu, insieme ad altri migliaia di seguaci impazienti e invasati, possa urlare: “Show a little faith, there’s magic in the night, you ain’t a beauty buy hey, you’re alright…”. E quel momento arriva. come in ogni liturgia che si rispetti. Come il coro di Born to Run. Potresti urlarlo ogni giorno: alzarti la mattina, lavarti, mangiare, lavorare, amare, ammalarti, guarire, solo per quello, per quei pochi versi che esplodono in mille pulsioni. Bruce, il desiderio. Il cuore che ha fame. Hungry Heart. E di nuovo, come se non avessimo fatto altro nella vita, come se fossimo venuti al mondo solamente per questo, quelle parole ti schizzano fuori dallo stomaco. Bruce e la notte: luogo deputato di centinaia di storie. Però a un certo punto, della notte non ce n’è più bisogno. Ci siamo rincontrati, di notte, ci siamo scrutati nell’oscurità; una comunione di anime e desideri, di notte; di perdenti ancora infiammati di vita, di notte. Poi il buio diventa superfluo. La notte l’hai assimilata. Ecco perché i suoi concerti finiscono con la luce del giorno. Così ci si può finalmente guardare negli occhi, guardarlo negli occhi, frugare fra i nostri graffi, che dall’ultimo concerto, sono diventati più numerosi e profondi. Come i peccati e i fallimenti. Possiamo mostrare spavaldi i nostri visi esaltati, radunarci intorno al suono del sassofono-totem di Big Man, raccogliere tutti i pezzi e finalmente ricostruirsi, rivedersi come in una fotografia. Il cuore che impazza sotto i colpi della batteria di Max Weinberg. Solamente chi ha visto Bruce Springsteen dal vivo può capire. Con Bruce si torna a casa. Una casa che sta su un confine. Un confine da cui si vede tutto. Una piccola Promised Land di consapevolezza zippata in tre ore. Capisci in quegli istanti, che è quello il tuo posto nel mondo. E da nessun’altra parte. Ogni volta va in scena una specie di rapporto carnale: la notte, il fuoco, il desiderio, la passione, l’estasi.
Ci sono 3 concerti in uno. Nella prima parte di rendi conto che hai davanti a te la più grande rock’n roll del mondo. Tecnicamente eccelsa. Nella seconda, imprevedibile, Bruce raccoglie le richieste del pubblico scritte su dei cartelloni e decide lì per lì quali pezzi suonare. E’ il momento più gustoso: si apre lo scrigno dei gioielli e dei ricordi. Sei contento, ma rimani deluso. Sei deluso, ma fuori di te per la contentezza. Perché non è mai come ti aspetti.
Niente Drive All Night, niente Backstreets. Niente Cadillac Ranch. La scaletta perfetta non esiste. Accidenti. Poi, il concerto, inteso in maniera tradizionale, con la scaletta scritta di suo pugno, ricomincia e raggiunge il top con Born To Run. Quella è la linea di demarcazione, tra la fine del concerto e i bis, tra la notte e il giorno, tra le sorprese e altre sorprese. Perché i bis non sono sempre i soliti. Sì, la maggior parte delle volte pesca da un gruppetto di una quindicina di canzoni. Ma a Roma, inaspettatamente, ecco che dedica “My City of Ruins” ai terremotati abruzzesi. Ecco che riprende un cartellone (ma non erano finite le richieste?) e si scatena con You Can’t Sit Down (e questa da dove diavolo l’ha tirata fuori? Perché non la conosco? E’ una cover? Sì, è una cover). E ancora, Dancing in the Dark. Ballare nelle tenebre, Ma le tenebre non ci sono più.
Bruce ti dà la misura di ciò che un artista può fare sul palco. Ti rendi conto che gli altri sono indietro, indietrissimo. Non si concedono, non trascinano quanto potrebbero trascinare. Non danno tutto di loro stessi. Non c’è la stessa alternanza magica fra momenti seri e cazzeggio. La generosità. La semplicità. Il furore del rock. L’allegria. Dopo un paio di canzoni, all’inizio, Bruce si sposta la chitarra sul fianco, afferra il microfono, scende un paio di scalini e via, si mescola col pubblico, ci si impasta. E’ il segnale dell’amico che rifiuta qualsiasi formalità e solennità. Come se ci fossimo visti la sera prima a cena: il palco non è, mai, un altare sacro e irraggiungibile.
Mentre vado via, e non stacco gli occhi dallo stadio, ci penso. Ai rimpianti. Ad averlo visto così poche volte. Non poteva esserci nulla di più importante, di impellente. Non poteva esserci un motivo migliore per infilarsi in treno, in macchina e raggiungere una città, uno stadio, una notte (che poi diventa giorno). Per fuggire verso me stesso. Che avevo di meglio da fare, quando tra me e lui c’era solo una striscia d’asfalto? Penso con malinconia che tutto questo sta per finire. Che la E Street Band non è eterna. Che sono vecchi. Che Big Man sta male. Che potrebbe essere l’ultimo concerto. Che Bobby Jean non esiste. Che tante, troppe canzoni non sono riuscito ad ascoltarle dal vivo. Che pure stavolta non ha fatto The River. E che voglio tornare all’inizio, a Badlands:
“you wake up in the night,
with a fear so real,
spend your life waiting for a moment
that just don't come,
Well, don't waste your time waiting…”

giovedì 2 luglio 2009

Misantropia e stereotipia

Quando ho visto che aveva la barba e quando ho sentito la cadenza bolognese e quando ho notato il gesto morbido con cui ci offriva del vino usando la frase “volete bere una cosa?” mentre indicava la tavola, non ho esitato a guardargli i piedi. Oh, yes, aveva i sandali. Ovvio.
Era l’inizio di una serata choc. I gesti erano quelli visti e rivisti dell’alternativo dai ritmi blandi, quello che “io senza una bottiglia di vino, la sera, non mi rilasso”, quello che almeno una volta ha pensato a trovarsi una dimensione. Vecchio, roba vecchia. Muffa.
Bene. Anzi male, perché ci sono dentro. Continuiamo. Quando mi siedo accanto agli altri commensali, la cerco. Non può non esserci. Se guardate un film western, deve esserci una pistola. Se guardate un film romantico, alla fine il bacio ci scappa. Ed infatti, eccola lì, appoggiata sul bracciolo del divano. La chitarra. Pronta all’uso, da lì a poco. Il bolognese (in bolognese) ci annuncia che la sera successiva ci sarebbe stata ancora bisboccia, perché la coinquilina americana avrebbe lasciato la casa. Noi eravamo invitati. MI dico: “lo dirà?”. Non userà proprio quella parola. E invece. “Domani sera se vi va di passare, c’è un festino perché Kris va via”.
La barba, i sandali, la chitarra. Il festino. E in bolognese. Lessico scontato. Quel lessico che ti spalanca la porta della cantina degli orrori. Perché in realtà tu vivi sperando che gente del genere si sia estinta. E invece c’è ancora.
Quando mi trovo al cospetto di stereotipi tendo a mettermi la mano sul mento e a roteare gli occhi, almeno finché non sopraggiunge il mio tic che si impenna davanti ai discorsi di cui già conosco inizio, itinerario dialettico e conclusione, quei discorsi che ti vengono spacciati per un filo perle di saggezza. Muffa.
Per la cronaca, Kris non c’e’. La valchiria bionda con due grattacieli al posto delle gambe. Peccato. Già per questo, ci vorrebbe una sigaretta. Me la faccio. La prima di una lunga serie. E chi li regge a questi. Sicuramente il mio sarà l’unico pacchetto sul tavolo. A occhio e croce questi usano il tabacco sciolto (che in qualche negozio vendono insieme ai sandali). Il tabacco sciolto con rollata disinvolta e sandalo accavallato fa un sacco musicista con orari spagnoli. Il musicista con orari spagnoli è un giovane esemplare della razza umana che non lavora e si dedica alla sua passione, la musica, tenendosi in allenamento durante i festini. Non lavorando, le sue attività fisiologiche tendono a traslarsi nel futuro con un ritardo di circa un paio d’ore rispetto alla tabella di marcia. Un po’ come fanno gli spagnoli che pranzano, cenano, cacano più tardi rispetto a noi, insomma sul davanzale della notte.
Nel libro “Piero Angela e l’umanità che avete sempre conosciuto pur non avendola mai incontrata”, è scritto in grassetto che i musicisti con orari spagnoli fumano tabacco sciolto e sono soliti commentare un’informazione esclamando “dai, che storia!” con la “o” un po’ aperta, quasi invidiosa della “a”, a cui la “o” tende la mano pur senza toccarla. Finto interesse tipico del finto alternativo.
Di Kris, nemmeno l’ombra. Niente pratica di inglese, stasera. Niente cosce americane.
Oltre al bolognese barbuto (barba ispida che sembra non curata mentre è curata affinché sembri ispida) e sandaloso ci sono altri due musicisti (siamo tutti musicisti…) di cui mi sfugge la sfumatura geografica borbonica, uno dei quali, mentre sistema con le unghie un po’ di tabacco (per gli amanti della statistica e di Piero Angela, era tabacco Golden Virginia, confezione verde) e umetta la cartina, mi rivolge la fatidica domanda. Del resto, non ci siamo mai visti, deve pur farmela.
La mia accompagnatrice, nota appassionata di stereotipi - tanto che dovrò consultare il suddetto libro per vedere a quale stereotipo appartengo io – è tutta occhi, sorrisi e orecchie. Finge pure lei, almeno lo spero.
E il bolognese ci sta spudoratamente provando con la tattica del “sono curioso e voglio davvero sapere che hai fatto oggi” (tradotto: voglio infilarti una mano tabaccosa tra le cosce e faremo giochini proibiti coi sandali e la bottiglia di vino). Per cui, dato che domandare e lecito e rispondere è cortesia, io e la mia normalissima, conformista e preconfezionata chesterfield light, a cui non ho mai voluto così bene, sintetizziamo la mia attività cercando di evitare le parole scatenanti. Ma essendo impossibile, mi tocca pronunciarle. Per smorzare un po’ l’ansia tengo d’occhio la chitarra sul divano sperando che rimanga lì assieme al suo strascico di vecchi successi di Battisti, degli Eagles e di De Andrè. Sì, roba buona, ma vecchia. Muffa. Che palle.
“Scrivo di cinema” dico. “Dio mi perdoni, anzi mi fulmini e poi mi perdoni”, penso.
Sia il bolognese che Golden Virginia, all’unisono: “Ma dai, che storia…”.
Pausa di riflessione psico-motoria. Sospiro. Che ora è? Presto, maledettamente presto. E di Kris, il sogno americano, nemmeno l’ombra.
Pur non sapendo nel dettaglio quale sarà la domanda successiva, ho idea dell’orbita attorno alla quale essa girerà. I miei automatismi mentali nel giro di un secondo stilano il seguente elenco: Nanni Moretti, Moretti Nanni, Nanni, Moretti. Intanto il terzo tace. E’ riccioluto, con gli occhiali e un po’ pallido, tanto che l’ho subito etichettato come l’ideologo del gruppo, il carismatico leader occulto, il Charles Manson dei musicisti con orari spagnoli, il bancomat di papà e il curriculum universitario che recita: esami fatti, 1.
E mentre il bolognese si interessa ai prossimi viaggi della mia accompagnatrice, Golden Virginia, con lo spino di tabacco infilato in un angolo delle labbra mi chiede, non senza un filo di perversione, “Lo hai visto Ecce Bombo?”. Sì, dice proprio così. Ci vorrebbe un festival di puntini di sospensione. Giuro che è tutto vero. Fa male, ma è vero.
Dov’è Kris? Dov’è il suo profumo? E le sue tette?
Io che non mento mai, perché è peccato, dico “sì”, ma quello che non dico è che Ecce Bombo è un film di Nanni Moretti del 1978 che è passato di moda nelle conversazioni a tavola dal 1979 e appartiene al periodo neolitico della mia formazione mentale, come il bondì a colazione, le figurine panini e “Tre nipoti e un maggiordomo”. Invece in pienissimo 2009 eccolo riemergere dalle tombe di un immaginario collettivo tramortito. E per bocca di uno che, credo, tenga sul comodino le memorie di Lenin, le ricette di Trotzsky, gli inestetismi del partito dei lavoratori combattenti, perché lo aiuta a costruirsi il suo personaggio. Ecce Bombo è un gusto che ha ereditato, una filastrocca mandata a memoria.
Ma più che altro. Che cazzo c’entra?
Roba vecchia, muffa. Finzione. Da universitari fuorisede del cazzo.
Non mi arrabbio, e non perché sia a casa di ospiti, ma perché in presenza di stereotipi bisogna agire con moltissima cautela.
La cautela che non si confà alla mia accompagnatrice ingenua che incalzata dal secondo bicchiere di Cannonau e dall’ispido bolognese con la sua tattica del di-vin festino, rivela alla gentile platea che l’ultimo film che ha visto al cinema è “Milk” con Sean Penn.
Purtroppo bisogna pur far conversazione. E le conversazioni sul cinema sono le più tremende in assoluto.
Comunque, non l’avesse mai detto.
L’ideologo occulto afferra la chitarra (… Ecce Lucio…) e, scuro in volto, con le “o” che tendono alle “a”, e le “e” che tendono alle “i”, afferma con la solennità di un verdetto supremo (rullo di tamburi e fiato alle trombe…) “ Io detesto il cinema americano”
Ah! Ecco Me mancava. Ma mica lo penso, lo dico proprio. E lo dico in romano con cadenza romana, strafottenza romana, e sguardo romano. Lo prendo per il culo. Tanto lo so che sta per strimpellare una cazzo di canzone di Battisti.
Con lo sdegno che si dedica solitamente ai maltrattatori di bambini, l’ideologo continua, sciorinando, tra congiunzioni e verbi, termini come imperialista, fallocentrico (questo non lo sentivo da prima che l’omo inventò il pisello), politico. E nel frattempo, il primo accordo parte.
Seguono vari commenti superficialissimi a cui io non partecipo.
Seguono ridde di nomi e di titoli a cui io annuisco o sorrido come avessi una paresi.
Seguono cambi di posizione tattica: sedia-divano; sedia-sedia; sedia-finestra.
Seguono le note di una canzone di Battisti. Come te sbagli. Mi si gela il sangue.
Mi alzo e vado al cesso.
Kris, dove sei?

martedì 23 giugno 2009

Consigli utili se volete acquistare una macchina


1) Scegliere la macchina da acquistare è una seconda attività che spesso ti obbliga a togliere tempo alla tua attività principale.


2) Non esiste la macchina che vuoi tu. Non c’è il colore, oppure se c’è arriva tra sei mesi, quella molto bella è solo a benzina ma consuma troppo, quella che consuma poco è brutta, quella che consuma poco ed è bella ha gli interni in plastica schifosa, quella bella che consuma poco e ha gli interni eleganti ha uno stereo da serie c.


3) È utile dotarsi di un secondo numero di telefono, avere quindi un cellulare per il resto del mondo e uno da dare ai venditori di macchine, anzi consulenti all’acquisto – pure la definizione del loro mestiere porta la cravatta. Io ho commesso l’errore di dare il mio numero di telefono principale al concessionario della Citroen, che ancora mi cerca.
P.s. Ricordatevi di staccare la segreteria telefonica.


4) Non perdere troppo tempo nel prendere una decisione. Qualsiasi giorno di ritardo comporta la vendita della macchina che piaceva a te e che avevi finalmente deciso di acquistare dopo una notte insonne di troppo.


5) Esiste il safety pack, cioè una serie di optional di sicurezza che però sono a pagamento. In un mondo normale – quello del mercato delle automobili non lo è – ogni macchina dovrebbe avere di serie tutti i dispositivi di sicurezza immaginabili. Così come ha volante, ruote e freno a mano. Invece la tua vita può costarti 700 euro in più.


6) Il valore di uno stereo di serie, di qualità nettamente inferiore a quelli che compri “sciolti”, parte da 300 euro. Cioè circa il doppio di uno superstereo spaziale che compreresti da Euronics.


7) Capisci che nel mercato del lavoro manca un mestiere. Dovrebbe esistere una figura professionale a cui ti rivolgi elencandogli le automobili di tuo interesse. Questo cortese maggiordomo dei motori te li riunisce tutti in un autosalone preposto, con tanto di preventivo ben in vista sul parabrezza. Il maggiordomo dovrebbe sapere tutte le risposte riguardo a consumi, rumori, valore della macchina negli anni, accessori di serie, optional e possibilmente aggiungere bonariamente un consiglio da amico. Poi tu valuti, ti prendi mezza giornata e decidi a colpo sicuro. Invece no, sei tu che devi andare dalla macchina. Ecco perché Maometto andava a piedi (e del resto il profeta cercava una jeep…)


8) Nel momento in cui decidi quale macchina vuoi, attendi una ventina di minuti e ti verranno in mente mille difetti.


9) Tu e il consulente all’acquisto parlate una lingua diversa e ogni tentativo di unire promiscuamente i due lessici è vano.


10) Quando cominci a sentire una voce che afferma che è inutile acquistare una macchina che costa come dieci stipendi quando l’uso principale che ne fai è proprio andare al lavoro, beh, ignorala. Ma sappi che ha ragione.


11) Cercheranno sempre di propinarvi un motore diesel.

lunedì 1 giugno 2009

Essi vivono...ed entrano in libreria


Trastevere. Sera tardi. Una libreria minuscola. C’è poca gente che sbircia dorsi e accarezza copertine con disimpegnata premura. Le luci al neon ti accorgi che friggono solo se giuri di non ascoltarle. Così come il fruscio delle pagine. Fuori, l’onda della folla urta morbida contro i riflessi rossastri, e frulla voci e risate. L’atmosfera è sommessa e in agguato, tra ebbrezza e riserbo. Ognuno sembra possedere il suo spazio, come postille a margine.
Poi.
Entra.
lui.
Ovvio l’abbigliamento. Ovvi i lineamenti. Ovvia la postura. E' la prima pagina del corso per corrispondenza di identikit.
Strilla.
E’ euforico.
Dice (al telefono. Ovvio).
“Ahoooo!...me sto ppe compraaa ‘a bbbibbia”
Continua.
“...Siii…iorocco…er libbro deroccosiffredi”.
Attacca.
Un passo verso la cassa.
“Che cce l’hai er libbro de roccosiffredi (…qui metterei un punto interrogativo…cioè un segno che, convenzionalmente, nella punteggiatura, sta a significare che si è fatta una domanda…ma non sono sicuro che lui utilizzi le stesse convenzioni…).
Il cassiere è un tipo flemmatico col piercing al sopracciglio e la barba incolta.
E’ vestito come un cassiere flemmatico col piercing al sopracciglio e la barba incolta.
“Ora controllo” dice con lo sguardo fisso sul monitor del computer.
Mente, sapendo di mentire.
Ostenta indifferenza ma sta sfogliando nella sua testa un booklet di mostri preistorici.
“No, non ce l’abbiamo, mi dispiace" (...mammuth...pterodattilo...velociraptor...).
"eh...Eccecredo, vavvia come erpane...vabbè...cciaooo..."
"Arrivederci", (...tirannosauro...tigre dai denti a sciabola...) risponde il cassiere con calma mesozoica.

Una ragazza spagnola stringe tra le mani una colonna di libri. Ha un vestito corto e le gambe abbronzate.

Un uomo anziano e una donna coi capelli tinti parlottano vicini con gli occhiali sulla punta del naso.

Il cassiere accavalla le gambe e si gratta la barba sul mento.

"Aho...l'hanno finito...ooosapevooo..."

Io respiro il profumo saggio della polvere. Sono tranquillo e ho le mani in tasca.






domenica 24 maggio 2009

Essi vivono...(purtroppo)


Quelli che… “ma scusa, invece di affittarla casa, perché non te la compri?”

Quelli che… “scusa ma vai a convivere, no?”

Quelli che…”ma non senti caldo? ma non senti freddo?”

Quelli che… “ Non ascolto la musica straniera perché non capisco le parole”

Quelli che… “ ah, no, io domenica vado al mare”

Quelli che… “io vado al cinema per non pensare”

Quelli che… “ al cinema ci vado per passare due ore”

Quelli che… “no, al cinema d’estate no, perché fa caldo”

Quelli che… “ma io avevo capito subito come andava a finire”

Quelli che… “come mai non avete giocato a calcetto anche se eravate 9”?

Quelli che… “scusa, ma fatte il mac”

Quelli che… “scusa, ma fatte il bmw”

Quelli che… “io senza una settimana di mare non so stare”

Quelli che… “ma perché non ti fai un viaggio?”

Quelli che… “ perché non fai un figlio?”

Quelli che… “beh dai un altro paio d’anni poi ti sposi”

Quelli che… “le hai fatte le foto?”

Quelli che… “ho fatto un sacco di foto, poi te le faccio vedere”

Quelli che… “le vuoi vedere le foto?”

Quelli che… “il libro scorre, è scritto facile, te lo leggi in due ore”

Quelli che… “com’è il film?” “carino”

Quelli che… “scusa, ma fatte la smart”

Quelli che… “scusa, ma fatte lo scooter”

Quelli che… “gli animali sono meglio degli esseri umani”

Quelli che… “ma perché non mandi il curriculum?”

Quelli che… “l’hai vista la partita?” “sì, ogni tanto giravo”

Quelli che… “i politici so’ tutti uguali”

Quelli che…”io non sono razzista, però…”

Quelli che… “ma perché non scrivi un libro?”

Quelli che… “ah, io oggi solo frutta”

Quelli che…” ah, io da adesso solo insalata”

Quelli che… “ io non fumo però mi faccio le canne”

Quelli che… “no, io solo viaggi organizzati nei villaggi”

Quelli che… “Ti do i soldi, però la fila la fai te”

sabato 4 aprile 2009

Dio salvi la Regina!

Vabbè, questo video che si candida ad essere il cult dell'anno mi suggerisce un paio di riflessioni.

La prima è che Berlusconi, un po' ci fa un po' ci è. Non è la prima volta che dà spettacolo a un summit internazionale. Sia perché è un bauscia, cioè un brillantone che millanta confidenze e amicizie che non ha per mettersi al centro dell'attenzione, sia perché comportandosi in questo modo stringe ancora di più il rapporto col suo elettorato che è talmente ebete da pensare che questi comportamenti siano una ribellione al perbenismo, uno strappo sulla tela irrigidita del protocollo. Ecco, ora ci manca solamente che il bauscia sia considerato una sorta di iconoclasta, baluardo contro l'establishment.

La seconda riflessione scaturisce dai commenti al video che ho letto qua e là su internet e che confermano la mia impressione suddetta, con il popolo del web spaccato in due tra demonizzazione del bauscia ed esaltazione delle sue qualità nazional - popolari.

Internet è diventato una specie di fogna a cielo aperto. La democrazia della comunicazione ad oltranza genera mostri. Non mi riferisco solo al caso specifico. Frequento per interesse personale vari forum, community; leggo i post della gente comune così interventista e morbosa nel presidiare la rete e vi constato un diffuso becerume, una scucitura della cerniera dialettica a favore dell'insulto gratuito, pesante, irrispettoso. E ancora più grave perché scritto, quindi pensato, riletto e non certo figlio di uno scatto di nervi.

Ripenso a quando, una ventina d'anni fa, Radio Radicale aprì le sue linee (verrebbe da dire gabbie...) telefoniche permettendo a chiunque lo volesse di lasciare un messaggio in segreteria telefonica. Ne uscì fuori un quadro deprimente di persone represse pronte a sfogarsi col prossimo usando un repertorio di parolacce disgustoso. E ve lo dice uno che, in quanto a parolacce specie a sfondo sessuale, ha degli standard molto alti. Ma in altri contesti e, spero, con un filo di ironia che in quel caso, come nei commenti sul web è del tutto assente.

Un presidente bauscia e maleducato è il parto mostruoso di un popolo di bauscia e maleducati. E scusate per il collegamento e la conclusione affrettata e semplicistica. Ma son cose che fanno cadere le braccia.

Chiudo dicendo che se c'è una cosa veramente, dannatamente rivoluzionaria ormai, questa è la buona educazione.

E poi...che Dio salvi la regina!

lunedì 30 marzo 2009

Al diavolo il senso di colpa

Il più bel regalo di compleanno me lo ha fatto una celebre sconosciuta.
Pulsatilla - la blogger verde acida più chiacchierata nei bunker degli hikikimori nostrani e che riceve centinaia di commenti pure se posta che ha finito la carta igienica o che il fornaio sotto casa ha un bel pacco– annuncia che avrà molto meno tempo da dedicare al blog perché ha trovato un lavoro dalle 10 alle 19.
Pfui! Io e la mia stupida, martellante autocritica. Sempre a tormentarmi l’anima con le palpebre ostili dopo una giornata in ufficio perché non ce la faccio a rimanere lucido e scrivere qualche cazzata. Finalmente il mio lavoro ha un significato che va oltre i 1000 euro insanguinati mensili: impedire di sentirmi in torto per mancanza di zelo bloggistico, o bloggivero, bloggofilo. Insomma quella cosa lì.
La gente che lavora non ha mica sempre tempo per inchiostrare il monitor di sarcastiche ed egocentriche osservazioni su stesso e il globo terracqueo con tutti i suoi minuscoli (in confronto al globo nonché al pacco del fornaio di Pulsatilla) abitanti.
Per cui posso fregarmene altamente e ri-la-SSA-RMI. E al diavolo il senso di colpa.

Peccato, proprio oggi che la commessa del supermercato aveva un cleavage abbacinante, roba da scriverci minimo mezza pagina.

Peccato perché ci voleva una bella disquisizione sull’ora migliore per consumare un sano amplesso. Meglio in mattinata per dare subito un senso a una giornata che non riserverà imprevedibili godurie? Oppure in zona preserale, come aperitivo prima dell’abbuffata e per facilitare la visione del film avendo ridotto gli ormoni a più miti consigli?
Certo il pomeriggio del sabato sembra che sia stato inventato apposta per arroventati spasmi pelvici, sinceramente molto più eccitanti di un tristissimo tour all’ikea.
E della notte ne vogliamo parlare? Magari dopo un breve pisolino per recuperare le forze? Meglio non parlarne perché già siamo arrivati a quattro. E quattro volte al giorno cominciano ad essere impegnative quando hai solcato un certo confine anagrafico.

Ci sarebbe da scrivere sull’ennesima, sostanziosa lezione di cinema di Clint Eastwood con “Gran Torino”. Sto cominciando a fargli il tifo contro. Se continua a sfornare opere di questa caratura, mi occupa sempre un posto per la top 5 dei migliori film della stagione. Sebbene c’è da dire che un minimo di compiacenza verso il pubblico in “Gran Torino” l’ho notata; molto meglio la subdola cattiveria di “Changeling”. Ma siamo sempre nei paraggi del sontuoso.

Un mio amico, cattolico accanito praticante papaboy antiabortista antidico ecc - insomma con l’identikit completo del supporter vaticanista, esclusa la scarlattina e l’evasione fiscale - ha chiosato la discussione post-calcetto che verteva sulle frasi di Benedetto XVI a proposito dell’uso dei profilattici in Africa consigliandoci di voler bene al papa perché questo è il papa di tutti.
Io invece il papa non me lo inculo di pezzo e anzi nei miei momenti più rabbiosi comincio a considerarlo anche un pazzo criminale se ha la faccia come il culo di andare lì dove i morti arrivano dal suo dio a frotte proprio per colpa dell’HIV e in pratica consigliare a quella povera gente di suicidarsi.
Sempre dal Vaticano è arrivato puntuale il rimbrotto a Barack Obama per la legge che facilita la sperimentazione sulle staminali. Chissà come si dice “sti cazzi” dalle parti di Washington.
Mi sa che il Vaticano sta ai mezzi con le imprese di pompe funebri se continua a lavorare affinché la gente si ammali e muoia. Al diavolo il senso di colpa.
Ovviamente per bacchettare con una pacca sulla spalla il vescovo negazionista William Richardson per il quale l’Olocausto è solamente un refuso sui libri di storia non segnalato dai correttori di bozze ci sono voluti venti giorni e si sono fatti pure rodere il culo perché tirati per la giacchetta da un drappello di pignoli che corrisponde numericamente all’intera opinione pubblica mondiale.
Del resto a Galileo Galilei gli ci sono voluti quasi quattrocento anni per essere riabilitato dalla chiesa. E che diamine! Un po’ di pazienza. E al diavolo il Vaticano.

mercoledì 25 marzo 2009

one step up

When I look at myself I don't see
The man I wanted to be
Somewhere along the line I slipped off track
I'm caught movin' one step up and two steps back



Bruce Springsteen - One Step Up (Official Music Video) - Watch the best video clips here

lunedì 16 marzo 2009

Il corpo e il sangue di Mickey


Un uomo al tramonto che respira l’odore della sua fine cerca di fuggire all’isolamento in cui si è autorecluso da anni per non morire da solo.
Se “The Wrestler” fosse un organismo umano, questa - la fabula - sarebbe lo scheletro. Poi c’è Mickey Rourke, che del film è la carne, i muscoli, gli organi interni, i nervi, la pelle: il corpo e il sangue.
Mickey Rourke è un ammasso di cicatrici e gonfiori, di lividi e ossa rotte, che deambula con la sua andatura pachidermica e stordita, sotto i riflettori del ring dove rincorre i fasti del passato e, al contempo, ai margini di una vita di terza classe, dissipata negli affetti e vicina, troppo vicina al gong ora che il cuore l’ha tradito.
Il suo corpo, martorizzato, paga anni di combattimenti artificiosi ma non per questo meno violenti; la sua anima, gentile e sensibile, vorrebbe sopravvivere fuori dal quadrato ma è impossibile rientrare dalla finestra del mondo dopo che sei uscito dalla porta. Solo l’affetto della spogliarellista di un night club illumina con un sorriso la sua vita spettrale. Anche lei è un’anima persa che, come il tamarrissimo wrestler, usa il suo corpo per far soldi, in performance menzognere di gemiti e lap-dance per un pubblico greve ma, ed è quello che conta, pagante.
Almeno lei non ha il volto deformato che è poi quello vero del Rourke attore, del Rourke uomo che ha rifiutato Hollywood e la sua omologazione e, nel momento del massimo fulgore della sua carriera, ha trovato le porte chiuse e si è messo a fare il pugile.
Era tanto che non si vedeva un attore incarnare (mai verbo fu più appropriato) il suo personaggio fino a trasfigurarsi con esso, fino a raccontare in quel rottame abusato di steroidi la propria biografia, la propria personale ghettizzazione. Ecco perché fa un po’ ridere il fatto che l’Oscar per il miglior attore sia andato a Sean Penn per “Milk”: mai scelta poteva essere più politicamente corretta e conservatrice. Perché se il militante gay raccontato da Gus Van Sant è l’esempio di come un grande attore riesca a far vivere un personaggio in virtù della sua immensa professionalità, a costruirlo in laboratorio; il tamarro meschato di Mickey Rourke è il cinema che si fa passione, intesa in senso cristologico, di calvario, di ferita inferta su se stesso e offerta in sacrificio per il pubblico. Fa nulla se il film gronda un po’ di retorica qua e là. Fa parte del gioco. E’ un ammiccamento all’enfasi pomposa del wrestling che, come il cinema, si basa su un tacito accordo tra chi lo pratica e chi lo guarda. La magia sta nel fatto che da questa artificiosità emerga un’identità attendibile, palpabile come un pezzo di carne, vera anche all'esterno dei bordi dello schermo. L’identità di un uomo che sul corpo indossa la mappa del suo passato incancellabile fatto di tagli, segni, trionfi e tracolli. Il corpo e il sangue di Mickey offerti in sacrificio per noi.

giovedì 26 febbraio 2009

La fine delle illusioni


Parto da una definizione vaga e molto poco professionale, con una di quelle frasi che direi se venissi interrogato all’uscita della sala, col popcorn ancora tra gli incisivi: Revolutionary Road non è un grande film, però è un film che fa centro. Non è un grande film perché al suo interno il cinema fugge verso il teatro, intrappolato nella logica delle scene madri e del campo/controcampo; è lì che cerca il decollo, trainato da Leonardo Di Caprio (bravo) e Kate Winslet (formidabile, come sempre), arricchito da un gruppetto di comprimari di gran classe (i comprimari, uno dei punti deboli del cinema italiano) specie Michael Shannon che fa il matto e dice la verità con tempismo crudele e senza eufemismi. Non è un grande film ma non è consolatorio come quel bluff chiamato “American Beauty” con cui lo stesso regista, dieci anni fa, rimproverava le coscienze benpensanti offrendogli troppe vie d’uscita. Non è consolatorio soprattutto se si entra in empatia col tormento interiore del racconto che è il lento naufragio di una donna (consapevole) e di chi la circonda (inconsapevoli) verso la schiavitù dell’anonimato esistenziale. In breve: America, anni ’50, superficie linda e pinta, frutto del boom del Dopoguerra e dell’onda lunga del New Deal; coniugi insoddisfatti, lei è più coraggiosa e spinge per vivere la vita nella sua pienezza convincendo lui a trasferirsi a Parigi. Lui, impiegato ‘invisibile’ in un’azienda con spazi open space dove sei un numero e non una persona. Fuori l’ombra del conformismo si allunga sui giardini curatissimi delle case di provincia che sono una specie di parto architettonico plurigemellare. All’inizio entrambi se ne fregano di quello che sarà, lì in Francia. Poi per lui arriva l’occasione di una promozione, di un progetto aziendale, di un ingresso nel futuro: i computer. E tutto cambia con l’aggiunta di un imprevisto chiamato gravidanza. Per lei è l’horror vacui, per lui Parigi diventa uno spreco di risorse, un salto nel buio inaccettabile. Litigi furiosi, desideri di aborto, verità nascoste. Poi il tragico epilogo. C’è una scena,la migliore del film, nel sottofinale, e guarda caso non si parla, ma si scruta nell’ombra e dentro se stessi con i due coniugi distanti: lui nella casa, lei nel bosco a prendere una decisione, quella decisione da cui non si torna più indietro. E’ il momento in cui il film ha la svolta, non solo narrativa ed estetica, perché ritrova il suo senso e mette le radici ad un’idea ambiziosa permettendo di riformulare in positivo anche ciò che di poco convincente si era visto sin lì.
Il supplizio di una vita sprecata non è nella rassegnazione (quella che coglie Di Caprio su una panchina nell’inquadratura finale), non è nel lutto da elaborare, ma nella graduale, ipnotica presa di coscienza che le illusioni sono finite, che chi non ha talento è perduto, che dietro i falsi miti della vita agiata, del ruolo sociale e dell’American Way of Life non c’è nulla, nemmeno un fantasma, forse solo una macchia di sangue che sgocciola sulla moquette. La moglie ritorna dal bosco e si appresta per l’ultima recita prima di decidere per sé, per il suo corpo, per la sua vita e la sua morte in un atto estremo e macabro di indipendenza. Sceglie di non tornare indietro, perché troppo soffocante sarebbe sostare in quel vialetto assolato o nel silenzio incombente di una grande casa ad aspettare l’inizio della fase, eterna, più tranquillizzante della rassegnazione. C’è una sola cosa che fa più male del sapere che hai perduto qualcosa ed è vivere al presente il momento in cui ti rendi conto che lo stai perdendo e ti viene impedito di ribellarti. Perché non puoi, perché non ce la fai. E perché non esiste nessuna ridicola ‘seconda chance’. La rivoluzione è solamente lo stupido nome di una strada.

domenica 22 febbraio 2009

Una vittoria che viene da lontano

Premesso che non me ne frega una fava sbrodolona di Sanremo, di cui quest'anno ho seguito, sì e no, mezz'ora della prima puntata (dopo un digiuno volontario di circa vent’anni). E sorvolando sul valore (nullo) della canzone vincitrice che mi è capitato di ascoltare 'obtortocollo' per radio, impossibilitato a cambiare stazione perché impegnato nella toletta quotidiana, ammetto che la vittoria di questo marco carta è emblematica del disarmo estetico di questo paese del cacchio. Che una volta era di santi, poeti e navigatori. Adesso è di animatori, venditori e patetici fan di reality show.
Chiariamo subito. Da appassionato di musica non sono spaventato dalla possibile inaugurazione di un trend; figuriamoci, marco carta sta alla musica come i pruriti di una suocera in menopausa alla storia della pornografia: niente, nada, nothing, zero. E' il come ci si è arrivati che mi provoca un insano sgomento. Non ha vinto un cantante dalla faccia pulita e dall’acconciatura aerodinamica. Non ha vinto una canzonetta insipida dal testo smielato attorno a quattro note messe in croce. No, ha vinto una community. Ha vinto il ticchettio sui tasti dei telefonini della wind; ha trionfato il passaparola tra i guerrieri degli sms della Tim Tribù. Ha vinto lo stile di vita "lifeisnau". Ha vinto la televisione di Maria De Filippi e di sua moglie Maurizio Costanzo che in due hanno fatto più danni cerebrali agli spettatori italiani di un carosello di elettrochoc, specie a quella fascia d’età che va dai 12-13 anni ai 20-21 (sono ottimista…) e che rappresenta la fetta più sostanziosa del mercato. Non esiste un consumista più consumista di un adolescente consumista. E non esiste un conformista più conformista di un adolescente conformista. Ha vinto il gusto di quel mostro a due teste e tre telecomandi che è il telespettatore medio italico forgiatosi in anni di visioni di programmi insulsi come “uomini e donne”, “amici”, “saranno famosi”; quel telespettatore che si appassiona alle gare di “xfactor” e commenta con morbosa ed empatica passione le vicende di quattro esibizionisti reclusi dentro la casa del grande fratello. La tv spazzatura viene da lontano, lontanissimo. Miete le sue vittime dai tempi del Drive In, dalla nascita delle tv commerciali. Ha seminato bassi profili e opinioni semplicistiche, ha segato in mille pezzi il tempo medio di concentrazione e reso asfittiche le capacità critiche. Ha reso possibile la triplice elezione di un presidente del consiglio che quelle televisioni le possiede, creando un’anomalia unica nella storia della politica mondiale. Ammetto che qualsiasi sociologo considererebbe queste mie dissertazioni alquanto semplicistiche, non a torto, per carità. E’ come giocare a “che cosa apparirà?” sulla Settimana Enigmistica, unendo dei punti lontanissimi tra loro e sperare che sbuchi una figura che abbia un senso. Però. Però la domanda perversa che mi pongo è questa: quanti di quel milione e passa di votanti che hanno decretato vincitore marco carta si è sentito davvero parte di una comunità, ha sentito il suo apporto decisivo per la vittoria di un amico, di uno di loro, di un compagno di vita quotidiana, e ha provato la sensazione di essere in vetrina, di partecipare attivamente all’esito di una gara che, a conti fatti, era già decisa in partenza? E inoltre, che significato ha la presenza di Maria De Filippi nel contesto della serata finale? Io la mia risposta ce l’ho. Mi sembrano i dati di un teorema di cui non conosco la tesi, ma sicuramente l’ipotesi: omologazione.

lunedì 9 febbraio 2009

Su Eluana

Sembra quasi che sia obbligatorio schierarsi sul caso di Eluana Englaro. Lo richiede la società dei sondaggi: staccheresti la spina: sì, no, non so. E’ una specie di “chi butti giù dalla torre” applicato a delicati principi etici; una domanda secca, di quelle che faremmo con tale superficialità solamente in un gioco da tavolo e perlopiù sottoposta a chi è lontano, lontanissimo dal dolore. Da una quotidianità fatta di sondini, di monache che cambiano pannoloni, scandita dal beepbeep angosciante delle macchine che tengono in vita il corpo inerme di Eluana.
E lontano anche dai pensieri più intimi di suo padre, dall’itinerario che ogni mattina da diciotto anni percorre: casa-ospedale, ospedale-casa, torturato forse da una preghiera impossibile, da un pensiero bestiale quanto generoso e umanissimo: sarebbe stato meglio che Eluana fosse morta in quell’incidente.
Ammetto che la sentenza della Cassazione lascia qualche perplessità quando stabilisce di aver tenuto conto “della personalità di Eluana, del suo stile di vita, delle sue inclinazioni, dei suoi valori di riferimento e delle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche” e che Eluana fosse «caratterizzata da un forte senso d'indipendenza, intolleranza delle regole e degli schemi, amante della libertà e della vita dinamica, molto ferma nelle sue convinzioni”.
Il giurista Lorenzo D’Avack con astuto gusto del paradosso sostiene che, sulla base di quanto stabilito dalla Cassazione, automaticamente i “giovani liberi, tendenzialmente anticonformisti, un poco anarchici, dinamici, attivi, con qualche entusiasmo per lo sport, diventano così per la Corte i soggetti ideali per un presunto dissenso, ora per allora, verso terapie di sostegno vitale”.
Già, cosa avrebbe veramente voluto Eluana? Quale decisione prenderebbe se per un momento tornasse in pieno possesso delle sue facoltà mentali? Quando, stando alle parole del padre, Eluana, parlando con gli amici, dichiarava che una vita attaccata ad una macchina non l’avrebbe mai voluta vivere era una ragazza con sogni, sorrisi luminosi e tutta un futuro da immaginare. Possiamo supporre i suoi desideri ma non possiamo esserne certi.

Io parto da un presupposto: c’è una sola persona al mondo che ha a cuore le sorti di Eluana e questo è suo padre. Non il Papa, né Berlusconi o Emma Bonino, io, voi, essi, i giudici, le suore, gli opinionisti, i filosofi.
Il padre ha deciso di non voler più veder soffrire sua figlia in stato vegetativo permanente da diciotto anni. Merita rispetto, perché solamente lui sa cosa significherebbe morire lasciando Eluana in quelle condizioni. Andarsene dal mondo lasciando Eluana in balia di disegni di legge, sentenze giuridiche, ingerenze del Vaticano. Da sola. Anche se qualche imbecille ha dichiarato che “sono le monache che la accudiscono ogni giorno, mica lui che è un padre indegno”. Sì, come no.

E ringrazio il Presidente della Repubblica che ha impedito che in questo stato crollasse il principio fondamentale, sancito dalla Costituzione, della divisione dei poteri. Annullare una sentenza della Cassazione con lo strumento del Decreto Legge avrebbe creato un precedente devastante. Immaginate in futuro una condanna della Cassazione nei confronti del Presidente del Consiglio, di un ministro, di un senatore, di un parlamentare annullata per Decreto. Saremmo piombati nell’incubo di un regime autoritario.
Se proprio devo schierarmi, allora mi schiero contro il Papa che parla di miracoli, di vita nel dolore avvolta nel mistero, di Dio che ci ha insegnato che si può guarire.
Contro il Cardinale Bagnasco per il quale “La realtà della sofferenza nella croce di Cristo si illumina di significato e di valore”.
Contro la giornalista Lucia Bellaspiga dell’Avvenire che scrive del corpo sano e florido di Eluana. Eluana che non soffre, che dorme e respira.
Contro il senatore Maurizio Gasparri che con populismo fascista dice “E’ iniziato l’omicidio di Eluana”.
Contro il cardinale Barragan e il suo “fermate quella mano assassina.”

Ma soprattutto mi schiero contro il Presidente del consiglio e contro le sue estorsioni morali, la sua mancanza del senso dello stato, la sua propaganda perpetua che lo porta ad accusare chi non la pensa come lui di seguire i dettami della cultura della morte.
Che si permette di affermare che la Costituzione fu scritta tenendo conto di indicazioni filo-sovietiche e quindi di un regime dittatoriale.
Mi schiero contro la perversa demagogia di un Presidente del Consiglio che, pur di arruffianarsi il suo elettorato, la chiesa, le vecchie, arriva ad affermare che “Eluana Englaro potrebbe generare un figlio”.
Potrei scrivere un paio di pagine riportando dichiarazioni di questo tipo che ovviamente sono solamente atte a suscitare una falsa indignazione e ad imporre i propri valori con arroganza populista. Preferisco postare quanto segue, preso dal sito dell’Unità.

* Il cervello di Eluana è stato irrimediabilmente compromesso la notte del 18 gennaio 1992 quando la sua auto slittò sul terreno ghiacciato e andò a sbattere contro un muro. L’incidente lasciò intatte le parti del cervello che controllano le funzioni fisiologiche primarie, come la respirazione e il battito cardiaco, che si trovano nel cosiddetto tronco encefalico. I danni più gravi riguardarono invece la corteccia cerebrale, una sorta di “cuffia” che avvolge il cervello e nella quale vengono elaborate funzioni più complesse come la parola, la visione, la percezione del dolore ma anche la fame e la sete. Quando i medici della clinica di Udine inizieranno a ridurre progressivamente l’idratazione e l’alimentazione artificiale, Eluana non si accorgerà di nulla, così come è da 17 anni che non avverte né fame, né sete, né dolore.

*l’articolo 32 della Costituzione dice che «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario» e che «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Proprio di recente, una donna a cui si è prospettata la necessità di amputare un arto, ha deciso di rifiutare l’intervento anche se questa scelta le è costata la vita;

*Il padre di Eluana ha percorso tutto l’iter del nostro sistema giudiziario prima di ottenere l’autorizzazione a interrompere i trattamenti artificiali di alimentazione e idratazione che da 17 anni tengono in vita il corpo di Eluana. I giudici hanno riconosciuto: a) che il padre ha svolto il ruolo di tutore delle volontà della figlia (che non avrebbe voluto vivere in condizioni di stato vegetativo); b) che i trattamenti artificiali di alimentazione e idratazione sono trattamenti medici e, come tali, rientrano in questo caso nella fattispecie di accanimento terapeutico

*L’omicidio, il più grave dei reati, è punito con le pene più alte: il medico che interrompe, dietro volontà del paziente o del suo tutore, una situazione di accanimento terapeutico non è punito dalla legge; al contrario, lo sarebbe se si ostinasse a curare il paziente contro la sua volontà (abuso di ufficio).


*La Cei ha detto che «togliere idratazione e alimentazione ad Eluana è eutanasia».Va notato come nella frase, ripresa dalle agenzie, manchi l’aggettivo “artificiale”: come spiegato sopra, l’alimentazione e l’idratazione artificiali sono, in questo caso, trattamenti sanitari e, dunque, da interrompere per volontà del padre che, come riconosciuto dalla legge, rappresenta quella della figlia. L’eutanasia viene praticata in alcuni Paesi, l’Olanda ad esempio, per alleviare le sofferenze di pazienti terminali. La morte viene indotta con la somministrazione, prima di un sedativo, poi di una sostanza che blocca il battito cardiaco o interrompe la respirazione: è dunque un intervento attivo che viene effettuato dietro volontà del paziente e dopo la decisione di un giudice. Eluana non è una paziente terminale: non ha un male che la consuma giorno dopo giorno. Nessuno, inoltre, ha mai parlato di interrompere il suo battito cardiaco ricorrendo a farmaci. Eluana si trova invece in una situazione vegetativa permanente che si protrae nel tempo solo per i trattamenti di idratazione e alimentazione artificiali. Secondo quanto detto dal padre e dai giudici dopo 12 anni di valutazione del caso, questi trattamenti sono stati sempre effettuati contro la sua volontà.

E poi, così, mi concedo un po’ di retorica, perché non riesco a smettere di pensare a suo padre, a Peppino Englaro, a quel volto sconvolto dal tormento, alle sue borse sotto gli occhi, alla dignità e alla forza con cui assorbe accuse infamanti e combatte con grinta la sua battaglia. Ogni giorno davanti alle telecamere, soffocato dai microfoni, pressato dalle istituzioni. Credo che, comunque vadano le cose, lui abbia già vinto e abbia ottenuto ciò che sembrava impossibile ottenere: far vivere di nuovo Eluana, renderla immortale, almeno nei pensieri e nelle coscienze di tutti. Altro che padre indegno.

sabato 31 gennaio 2009

Confidenze intime

Una mia amica mi confida di aver scoperto che il fidanzato la tradisce. Non con una, non con due, ma con tre donne: almeno quelle che risultano dalle tracce lasciate sul computer dal tale; in effetti potrebbero essere anche di più. Sbirciare nell’hard disk del partner può avere conseguenze atroci, ma è sempre meglio sapere. Il fascino brutale e macho della verità. Mi sorprende il fatto che sia dubbiosa sul da farsi, considerando che stando insieme da circa un anno, tutto il loro rapporto è stato basato sulle bugie e sul tradimento. In pratica, lei non è mai stata la sua unica ragazza. Si è innamorata strada facendo di una persona che non era quello che pensava: uno sconosciuto. Si piange. Non io. Loro. Lei per le corna che sbattono violentemente contro la stratosfera e perché non può fare a meno di lui (lui quale?). Lui pure piange (il tizio ci sa fare…) perché sa che le donne sono tutte diverse ma due cose le hanno in comune: la fica e l’istinto materno. E l’istinto materno si bagna più facilmente. Il mio consiglio è: “cara, aspetta. Qualsiasi decisione tu prenda, fa che non sia affrettata”. In realtà il mio pronostico è che entro una settimana lei cederà, scatterà la scopatina impulsiva al suono di languide melodie da melodramma patinato e ritorneranno insieme. All’ormon non si comanda. Come nelle peggiori telenovelas. Chiamo un mio amico, gli racconto il misfatto e mi dice due cose. Sacrosante. Primo: “quando ti ha chiesto di confidarsi gli dovevi dare una capocciata sul naso”.Secondo: “tra una settimana si sposano”. Il silenzio dei giorni successivi mi insospettisce. Non la vedo e non la sento. Nelle pagine di cronaca non c’è traccia di suicidi né di setti nasali frantumati. La stratosfera assorbe con millenaria dignità le cornute collusioni. La incontro una settimana più tardi, sorridente come un cervo, pardon come uno stambecco, pardon come un’alce. Insomma ride e sorride. Sfoggia come sempre il suo lui: ne parla con le amiche, infilando il suo nome nelle frasi, tra paragoni, dolci inclinazioni della personalità, scampanellii di romanticismo, richiami a coccolosi rendez-vous notturni. Andranno a vivere insieme e poi si sposeranno. Due cuori e una capanna. O due corna e un hard disk, fate voi. Chiamo il mio amico e gli dico che è un genio. (e lui: “e tu sei solo un confidente del cazzo. Ti avevo detto di spaccarle in naso!”). Mi guardo allo specchio e mi dico: “sei un genio”. Chiamo la mia amica e le dico: “però, ci hai riflettuto a lungo!” Lei: “ a tutti va data una seconda chance”. E’ la tua risposta definitiva? La accendiamo? Se la matematica non è un’opinione, ci troviamo davanti ad un caso originalissimo in cui il numero delle chances è inferiore a quello delle amanti e occupano anche meno spazio nella rubrica. Mi sa che se una donna ce l’hai in pugno, puoi cornificarla quanto vuoi: per riaverla ti basta disperarti, pentirti, promettere. Ed accordarti col fioraio per una tessera sconto. Ma, soprattutto, devi alzare la posta in palio. Piatto ricco, mi ci ficco (tanto per rimanere in tema). Due cose poteva fare il tizio: una promessa di matrimonio o metterla incinta (questione di mesi?…ora consulto il mio amico e poi vi dico). Ha scelto quella economicamente più conveniente. Meglio accendere un mutuo che candeline di compleanno a feste affollate di mocciosi. Due conclusioni. La prima è psicologica: come rifletteva Billy Wilder nel film “l’appartamento” con Jack Lemmon, i rapporti interpersonali sono basati sul meretricio. C’è gente che compra e gente che vende e si vende. Gente che manipola e gente che viene manipolata e perde la sua identità all’inseguimento di un inconscio desiderio di sottomissione. La seconda è hard (disk): l’amore è cieco, ma oltre a non vederci, mi sa che non sente nemmeno i sapori. Mi chiedo come abbia fatto la mia amica a riprendergli l’uccello in bocca senza sentire il sapore ancora freschissimo della gnocca di quelle tre amanti. Forse perché è quello che ha sempre gustato e non avrà notato alcuna differenza.