lunedì 30 marzo 2009

Al diavolo il senso di colpa

Il più bel regalo di compleanno me lo ha fatto una celebre sconosciuta.
Pulsatilla - la blogger verde acida più chiacchierata nei bunker degli hikikimori nostrani e che riceve centinaia di commenti pure se posta che ha finito la carta igienica o che il fornaio sotto casa ha un bel pacco– annuncia che avrà molto meno tempo da dedicare al blog perché ha trovato un lavoro dalle 10 alle 19.
Pfui! Io e la mia stupida, martellante autocritica. Sempre a tormentarmi l’anima con le palpebre ostili dopo una giornata in ufficio perché non ce la faccio a rimanere lucido e scrivere qualche cazzata. Finalmente il mio lavoro ha un significato che va oltre i 1000 euro insanguinati mensili: impedire di sentirmi in torto per mancanza di zelo bloggistico, o bloggivero, bloggofilo. Insomma quella cosa lì.
La gente che lavora non ha mica sempre tempo per inchiostrare il monitor di sarcastiche ed egocentriche osservazioni su stesso e il globo terracqueo con tutti i suoi minuscoli (in confronto al globo nonché al pacco del fornaio di Pulsatilla) abitanti.
Per cui posso fregarmene altamente e ri-la-SSA-RMI. E al diavolo il senso di colpa.

Peccato, proprio oggi che la commessa del supermercato aveva un cleavage abbacinante, roba da scriverci minimo mezza pagina.

Peccato perché ci voleva una bella disquisizione sull’ora migliore per consumare un sano amplesso. Meglio in mattinata per dare subito un senso a una giornata che non riserverà imprevedibili godurie? Oppure in zona preserale, come aperitivo prima dell’abbuffata e per facilitare la visione del film avendo ridotto gli ormoni a più miti consigli?
Certo il pomeriggio del sabato sembra che sia stato inventato apposta per arroventati spasmi pelvici, sinceramente molto più eccitanti di un tristissimo tour all’ikea.
E della notte ne vogliamo parlare? Magari dopo un breve pisolino per recuperare le forze? Meglio non parlarne perché già siamo arrivati a quattro. E quattro volte al giorno cominciano ad essere impegnative quando hai solcato un certo confine anagrafico.

Ci sarebbe da scrivere sull’ennesima, sostanziosa lezione di cinema di Clint Eastwood con “Gran Torino”. Sto cominciando a fargli il tifo contro. Se continua a sfornare opere di questa caratura, mi occupa sempre un posto per la top 5 dei migliori film della stagione. Sebbene c’è da dire che un minimo di compiacenza verso il pubblico in “Gran Torino” l’ho notata; molto meglio la subdola cattiveria di “Changeling”. Ma siamo sempre nei paraggi del sontuoso.

Un mio amico, cattolico accanito praticante papaboy antiabortista antidico ecc - insomma con l’identikit completo del supporter vaticanista, esclusa la scarlattina e l’evasione fiscale - ha chiosato la discussione post-calcetto che verteva sulle frasi di Benedetto XVI a proposito dell’uso dei profilattici in Africa consigliandoci di voler bene al papa perché questo è il papa di tutti.
Io invece il papa non me lo inculo di pezzo e anzi nei miei momenti più rabbiosi comincio a considerarlo anche un pazzo criminale se ha la faccia come il culo di andare lì dove i morti arrivano dal suo dio a frotte proprio per colpa dell’HIV e in pratica consigliare a quella povera gente di suicidarsi.
Sempre dal Vaticano è arrivato puntuale il rimbrotto a Barack Obama per la legge che facilita la sperimentazione sulle staminali. Chissà come si dice “sti cazzi” dalle parti di Washington.
Mi sa che il Vaticano sta ai mezzi con le imprese di pompe funebri se continua a lavorare affinché la gente si ammali e muoia. Al diavolo il senso di colpa.
Ovviamente per bacchettare con una pacca sulla spalla il vescovo negazionista William Richardson per il quale l’Olocausto è solamente un refuso sui libri di storia non segnalato dai correttori di bozze ci sono voluti venti giorni e si sono fatti pure rodere il culo perché tirati per la giacchetta da un drappello di pignoli che corrisponde numericamente all’intera opinione pubblica mondiale.
Del resto a Galileo Galilei gli ci sono voluti quasi quattrocento anni per essere riabilitato dalla chiesa. E che diamine! Un po’ di pazienza. E al diavolo il Vaticano.

mercoledì 25 marzo 2009

one step up

When I look at myself I don't see
The man I wanted to be
Somewhere along the line I slipped off track
I'm caught movin' one step up and two steps back



Bruce Springsteen - One Step Up (Official Music Video) - Watch the best video clips here

lunedì 16 marzo 2009

Il corpo e il sangue di Mickey


Un uomo al tramonto che respira l’odore della sua fine cerca di fuggire all’isolamento in cui si è autorecluso da anni per non morire da solo.
Se “The Wrestler” fosse un organismo umano, questa - la fabula - sarebbe lo scheletro. Poi c’è Mickey Rourke, che del film è la carne, i muscoli, gli organi interni, i nervi, la pelle: il corpo e il sangue.
Mickey Rourke è un ammasso di cicatrici e gonfiori, di lividi e ossa rotte, che deambula con la sua andatura pachidermica e stordita, sotto i riflettori del ring dove rincorre i fasti del passato e, al contempo, ai margini di una vita di terza classe, dissipata negli affetti e vicina, troppo vicina al gong ora che il cuore l’ha tradito.
Il suo corpo, martorizzato, paga anni di combattimenti artificiosi ma non per questo meno violenti; la sua anima, gentile e sensibile, vorrebbe sopravvivere fuori dal quadrato ma è impossibile rientrare dalla finestra del mondo dopo che sei uscito dalla porta. Solo l’affetto della spogliarellista di un night club illumina con un sorriso la sua vita spettrale. Anche lei è un’anima persa che, come il tamarrissimo wrestler, usa il suo corpo per far soldi, in performance menzognere di gemiti e lap-dance per un pubblico greve ma, ed è quello che conta, pagante.
Almeno lei non ha il volto deformato che è poi quello vero del Rourke attore, del Rourke uomo che ha rifiutato Hollywood e la sua omologazione e, nel momento del massimo fulgore della sua carriera, ha trovato le porte chiuse e si è messo a fare il pugile.
Era tanto che non si vedeva un attore incarnare (mai verbo fu più appropriato) il suo personaggio fino a trasfigurarsi con esso, fino a raccontare in quel rottame abusato di steroidi la propria biografia, la propria personale ghettizzazione. Ecco perché fa un po’ ridere il fatto che l’Oscar per il miglior attore sia andato a Sean Penn per “Milk”: mai scelta poteva essere più politicamente corretta e conservatrice. Perché se il militante gay raccontato da Gus Van Sant è l’esempio di come un grande attore riesca a far vivere un personaggio in virtù della sua immensa professionalità, a costruirlo in laboratorio; il tamarro meschato di Mickey Rourke è il cinema che si fa passione, intesa in senso cristologico, di calvario, di ferita inferta su se stesso e offerta in sacrificio per il pubblico. Fa nulla se il film gronda un po’ di retorica qua e là. Fa parte del gioco. E’ un ammiccamento all’enfasi pomposa del wrestling che, come il cinema, si basa su un tacito accordo tra chi lo pratica e chi lo guarda. La magia sta nel fatto che da questa artificiosità emerga un’identità attendibile, palpabile come un pezzo di carne, vera anche all'esterno dei bordi dello schermo. L’identità di un uomo che sul corpo indossa la mappa del suo passato incancellabile fatto di tagli, segni, trionfi e tracolli. Il corpo e il sangue di Mickey offerti in sacrificio per noi.