mercoledì 23 luglio 2008

Evelyn. (quinta e ultima parte)


Confesso di averci pensato. Un flash. C’è Evelyn che entra nel mio appartamento, vede T. sdraiato sul pavimento, capisce al volo tutto e lancia una proposta. La proposta. Quella proposta lì. Ammetto che nel novero delle mie fantasie sessuali non rientra quella che si chiama “cosa a tre”. Non ci rientra perché, nella costruzione della fantasia stessa, dovrei immaginarmi la presenza di un altro uccello oltre al mio. Poiché nelle fantasie ritengo opportuno dare un volto agli attori in scena, non sarebbe un uccello qualsiasi, ma l’uccello di un amico. E in erezione, per giunta. Brrr…! I miei sogni ad occhi aperti hanno un divieto d’accesso affisso a delle stanze chiuse a chiave dietro le quali ci sono i genitali maschili. Non voglio nemmeno passarci davanti a quelle porte. Sono off limits. E nella vita reale quelle porte hanno un lucchetto in più. Nella vita reale, se capitasse, non mi lascerei mai e poi mai coinvolgere in questo tipo di miniorgia (il termine tecnico è ‘threesome’, così, per rispetto dei cultori del genere). Non è solamente una questione fallica: Sì, ovvio, c’è un altro pisello che vaga nella mia stessa orbita, decisamente troppo nei pressi di qualsiasi parte del mio corpo. E non intendo solamente gli orifizi. Un pisello in erezione che non sia il mio è troppo vicino anche alle mie mani, al mio ombelico, ai miei polpacci e persino alle mie nozioni di filosofia. E’ del tutto secondaria anche la faccenda delle misure e del confronto. Voglio dire, si sta lì per fare sesso, non per scatenare un dibattito sulla lunghezza e la grossezza, organizzando per l’occasione un confronto all’americana. E, non ci crederete, non è nemmeno una questione di secrezioni, schizzi, e sgocciolamenti. Certo, lo sperma è sperma (ed anche questa è filosofia). Sia io, che la narrativa tutta, apprezziamo il patto di sangue che ha sempre la sua inarrivabile solennità. Il patto di sangue possiede una sua epica. Per cui, senza problemi, facciamoci un bel taglio e uniamo i nostri polsi recitando slogan di alleanza, unione, fraternità. Tutti per uno e baggianate varie. Ma il patto di sperma no. Quello è fuori discussione. Anche se, se si escludono interventi della Buoncostume, nella suddetta miniorgia quel momento dovrà pure arrivare, a suggello del trasgressivo e affollatissimo amplesso. Per andare fino in fondo nella discussione sull’eiaculazione dovrei mettere in gioco anche altre variabili (ne dico solo due: preservativo e ingoio. Ma le precisazioni andrebbero troppo per le lunghe e io ho un amico svenuto in casa mia). Dunque, è mia premura accantonare lo sperma, che ripeto è secondario (e chi glielo avrebbe mai detto, un giorno, allo sperma che era secondario?) per arrivare al nocciolo (stavo per scrivere ‘succo’). Il motivo principale per cui non farei mai sesso con una ragazza insieme ad un amico è il seguente: le facce. Sì, le facce. Le espressioni, le smorfie, le increspature della fronte, le bocche aperte e affannate, i denti che mordono il labbro inferiore e tutte le altre molteplici combinazioni mimiche, che saremmo, io e lui, costretti a guardare uno nel viso dell’altro nel corso del godimento. Di un mio amico sono disposto a vedere le lacrime. Non avrò problemi ad osservarlo togliersi la dentiera. Sono pronto a trovarmi di fronte alla sua agonia. Vorrò accarezzare il suo volto quando sarà una salma. Ma non me lo fate vedere quando sta scopando. E soprattutto quando ci stiamo scopando la stessa ragazza. Perché arriverà un momento in cui, io e lui, durante questa troppo gremita festa dei sensi, incroceremo i nostri sguardi. Io avrò una faccia da coglione. Lui avrà una faccia da coglione. E non riuscirei a smettere di ridere.



Fortunatamente (solo per questa volta) la vita non è un film hard. Ma sa sorprenderti con delle imprevedibili incursioni nel grottesco che sanno lasciarti di stucco. Per cui Evelyn entra in casa. Rapidamente. Una furia. Lascia cadere tutto quello che tiene in mano. Scavalca il corpo svenuto di T. e si infila di corsa in bagno. Niente scenate, né espressioni di sorpresa: solo i movimenti fieri e automatici di chi sa sempre cosa vuole. Evelyn riesce a spiazzarti anche nelle situazioni cruciali. E niente come un'impetuosa diarrea sa mettere la giusta punteggiatura alle situazioni cruciali. La sento parlare, dietro la porta del bagno. Non capisco cosa dice. Non vorrei, ma per saperne di più sono costretto ad avvicinarmi assumendo la posa di chi sta origliando. Ed è così che apprendo la notizia che Evelyn è incinta. In un trambusto di brontolii scatologici. Mentre lei mi sta devastando la tazza del gabinetto. Sono incinta. Plonf. Non so se il bambino è tuo. Plonf Plonf. Non so se lo voglio tenere. Plonf!Plonf!Plonf! Mi sembra quasi di sentire la puzza. No. Non quasi. Sento la puzza, già prima che Evelyn apra la porta del cesso. La sento vicinissima, come se qualcuno l’avesse ficcata nel mio naso. Del resto, può succedere. In concomitanza della perdita di coscienza per svenimento, che ci sia un rilasciamento muscolare e ci si ritrovi le mutande piene zeppe di feci. Quando Evelyn apre la porta del cesso, T. è alle mie spalle, che mi sventola davanti i risultati dell’ecografia di Evelyn. Con le mutande piene di cacca. Evelyn mi guarda fisso e aspetta che dica qualcosa. T. mi guarda fisso e non c’è niente che io possa dire. Sto pensando alla puzza. Sto arricciando il naso e non penso né al bambino, né al tradimento di un amico, né a tutta questa dannata storia. Solo la puzza. Mi rendo conto di essere in mezzo alla merda. Figurativamente, e non solo.

Un anno dopo.
Evelyn ha deciso di non tenere il bambino. La ragazza di T. ha deciso di non tenere in considerazione le sue patetiche scuse. Io ho deciso di tenere un atteggiamento distaccato sulla paternità del figlio mai nato. Evelyn è sparita. La rabbia di T. nei miei confronti è sparita. E’ sparito anche l’epicentro. Lo capisco dai capelli di T. che mi sembrano più radi nella zona delle tempie. Pure il colorito è un po’ più pallido. Ha l’aria dimessa di chi non ha più cartucce. A volte un uomo assomiglia alla sua delusione come assomiglia a suo zio. Quando era innamorato, o meglio ossessionato da Evelyn, T. abitava dentro l’epicentro di un terremoto. I suoi giorni erano agitati dai nervi, esplodevano di strategie, fiammeggiavano di illusioni. Le notti insonni erano scosse di assestamento in cui raccoglieva le macerie. Ma l’alba lo spingeva di nuovo giù dove la terra si fende e si sbriciola, lo incastrava nelle spaccature di un sogno che ogni giorno vacillava con più impeto, ma senza mai crollare del tutto. Ora, fuori dall’epicentro, T. cammina su una coperta di polvere che ha seppellito tutti i dubbi e le domande rimaste senza risposta. Non mi ha mai chiesto nulla. Si è ammalato di quel silenzio morboso che ti fa sudare freddo mentre sogni. Lo vedo alzarsi per prendere l’ennesima birra. Ha l'andatura e il contegno composto di una giovane vedova. Le sue mani frugano nelle tasche, le gonfiano in cerca di monete. Io lo osservo con commiserazione e con la speranza di vederlo scuotersi di nuovo. Mi soffermo sul display del suo telefono che giace come un intruso tra bottiglie e bicchieri sul tavolo impantanato. Lo fisso con ferocia, come se volessi ipnotizzarlo. Ed ecco che finalmente si illumina, squilla, si riempie di cifre. Evelyn sa sempre cosa vuole.

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