lunedì 8 dicembre 2008

Digerito dallo stomaco di Proust


La promiscuità spazio-temporale di Facebook mi lascia di stucco. Ho ricevuto un messaggio da P.A., un mio compagno delle elementari (avete letto bene? No? ho detto ELEMENTARI, non superiori, né università, né scuola guida, né servizio civile. Proprio elementari, per intenderci: il quinquennio 1977-1982…che è pure l’anno in cui ho visto P.A. per l’ultima volta).
P.A. mi ha aggiunto alla lista degli amici. Dopo un breve botta e risposta - così come se nulla fosse, come se ci fossimo visti al pub l’altro ieri - mi chiede: “di che cosa parla Californication?”. Il fatto è che io avevo scritto scherzosamente sulla mia bacheca di essere ormai dipendente da questa serie tv. Una frase la mia, che è un classico esempio di presenzialismo forzato, che, vedo con sommo piacere, contagia tutti i facebookers, puntuali nel pubblicare le più suggestive e stravaganti attività: dormire, lavorare, spegnere il computer. Esistere (o non esistere)
Perciò P.A. ha sciorinato un dribbling lungo 26 anni e ha scartato (in disordine cronologico) esame delle medie, primo bacio, polluzione notturna, centinaia di uscite cazzeggione con gli amici in carne ed ossa, perdita della verginità, sigaretta d’esordio, spinello d’esordio, primo voto elettorale, esame di maturità, venti esami all’università, tesi e, nei casi più tradizionali: matrimonio, prole, calo del desiderio col coniuge, adulterio, divorzio, domeniche coi suoceri. Che faccio? Mi concentro sulla sua foto e lo scruto: malgrado il pizzetto brizzolato e un bambino (il suo presumo) che fissa l’obiettivo insieme a lui, non posso fare a meno di ricordarmi P.A. con la zazzera bionda, il grembiule blu e il fiocco bianco. Non è nemmeno un deja-vu questo: è una voragine senza fondo che mi risucchia nella mia preistoria: sono stato digerito dallo stomaco di Proust.
Ma sì, caro P.A., che ci vuole. Noi siamo amiconi. Basta un click su facebook, et voilà.
Californication parla di questo scrittore in crisi creativa che rimorchia un sacco di donne ma è ancora innamorato della sua ex con cui ha un figlia adolescente. Vedi P.A. ciò che mi attrae in Californication è l’esplosività dei dialoghi: sboccati, scorretti; la spregiudicatezza delle situazioni, le protagoniste femminili arrapanti ed intellettualmente stimolanti oltre al fatto che sei trascinato in un processo di identificazione che al contempo ti stranisce e ti dà sollievo. Vuoi un po’ della mia merenda? Lo sai che ho dimenticato il sussidiario a casa? Speriamo che la maestra (avete letto bene? No? MAESTRA, non professoressa, dottoressa, sacerdotessa voodoo, padrona di casa. Proprio maestra, la signora Catera) non mi metta una nota. Io ho le dita unte di pizza nell’atrio della scuola Don Bosco coi bidelli che maneggiano cancellini; sono accanto a P.A. perché siamo in fila per due. C’è questa lunghissima rampa di scale (un palazzo di cinque piani, di quelli che gli starnuti rimbombano ) coi gradini giganteschi (io me li ricordo così) di marmo con le venature. Sento gli strilli degli altri bambini che corrono, gridano e puzzano sotto l’arco celeste della palestra (sembrava il planetario quella palestra); l’eco delle voci che si accavalla al rimbalzo atomico e martellante del pallone. Annuso la polvere dei gessetti e quell’odoraccio inconfondibile di Vinavil; ma sì, siamo pure sotto le feste. Il Vinavil, o Santo Dio: l’angoscia allo stomaco per il lavoretto di Natale (tipo le stelle fatte con le mollette e poi colorate con la tempera. La tempera cazzo!), e per la poesia da leggere a casa, tutta circondata da candele decorate, alberetti e pupazzetti disegnati coi pastelli (gli anarchici usavano i carioca). Esiste un servizio di pronto intervento psicanalitico? Ne avrei bisogno. ORA.
Ma dico io, caro P.A., con la cartella che ti ingobbisce la schiena e tua sorella che, alle tue feste, doveva gestire venticinque scalmanati sudatissimi che distruggevano una casa scapicollandosi sui bicchieri di carta appiccicosi di Fanta: come cazzo faccio a condividere con te Californication? E’ come se Fred e Barney de “Gli antenati” discutessero di Formula Uno o Steve Jobs della Mackintosh e Bill Gates della Microsoft dialogassero sull’utilità della clava nell’informatica.
Questa è una cosa fuori dal tempo, è trapassato remoto in tutte le sue coniugazioni. P.A. mi chiede di Californication come se ci fossimo visti l’altro ieri. Questa non è una gita in pullman all’orto botanico o al Museo Pigorini; no, questa è una visita al museo delle cere del rimosso. Me le ricordo quelle scampagnate feriali su questi mostri preistorici a motore (bellissimi: con le scritte colorate e i sedili imbottiti che ci sprofondavi dentro) quando finalmente vedevi i compagni in abiti borghesi e scoprivi che avevano delle gambe, due gambe; scoprivi chi aveva la camicetta da fighetto e chi la madre lo vestiva in tuta così stava più comodo. Di norma c’erano un paio di madri scelte come vittime sacrificali per aiutare la maestra ed evitare spargimenti di sangue sulle strisce pedonali, attraversate come un esercito di gnomi.
Mi ricordo che alle gite si univano due classi. Noi ci mescolavamo barbaramente con la sezione B della maestra Cossu, una sarda, piccola, nera come un tizzone, scorbutica, stregonesca e con la permanente argentata. Ad occhio e croce, oggi la Cossu al Museo Pigorini dovrebbe starci fissa, imbalsamata accanto ai mammuth.
Nella classe della Cossu c’èra quella biondina - capelli lunghissimi, lisci, lentiggini e gli occhi celesti – Annalisa D. – che noi bombardavamo di messaggi d’amore scarabocchiati sui fogli a quadretti; una fata inarrivabile che affiliava i nostri ormoni al mondo degli adulti, specie nelle ore di ginnastica (due classi pure in quell’occasione), quando finalmente si disincastrava dalla sediolina di legno e scorrazzava morbidamente in tuta acetata tra la rete di pallavolo e le spalliere. Una volta la vidi inerpicarsi su per il quadro svedese e fu uno dei giorni in cui finalmente a scuola imparai qualcosa.
Ripensandoci, P.A. non mi stava nemmeno tanto simpatico. Cioè, mi era simpatico all’epoca, quando facevamo le paginette con le “g” e ci prendevamo i pidocchi (lo shampoo MOM: verdissima, vischiosissima lozione bruciaocchi con cui mia madre mi torturò per una settimana). Poi nel corso degli anni, gli intermittenti succhi gastrici proustiani me lo hanno rigurgitato come uno spocchioso bambino figlio di genitori separati che masticava frasi fatte tipo: “volete venire a casa mia per passare un pomeriggio diverso?” e atteggiamenti da romanzo di formazione come venire col cappello di lana a maggio e giustificarsi davanti a tutta la classe: “perché mia madre mi trascura”.
Il botta e risposta tra me e P.A. ha avuto un altro striminzito seguito. Le informazioni che ho, sono che: ha moglie, un bambino, vive in Francia e non ha più la televisione satellitare. Io non ho moglie, né bambini, vivo a Roma e non ho mai avuto la televisione satellitare. L’ultimo strumento che io e P. A. abbiamo condiviso fu l’abaco con gli anellini colorati per imparare a fare i calcoli. Adesso il nostro dialogo dovrebbe ricominciare su facebook da accesso remoto. La vedo complicata. Altrimenti mi farei un giro sul profilo di Annalisa D. e le scriverei ‘ti amo’. Ma non sarebbe la stessa cosa senza i rimasugli di ‘das’ sotto le unghie e senza mio padre che mi chiedeva “che hai fatto oggi a scuola?”, con le sue mani ruvide e callose che mi pettinavano i capelli e i pensieri più paurosi.
La vita è un’invenzione perfetta perché a certe cose devi assolutamente dirgli addio.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

eh. come dice un libro illeggibile ma di grandissima saggezza intrinseca, bisogna lasciar morire ciò che deve morire. Post commovente, al solito, e anche un po'... emo. Rimango ferma nella decisione di non iscrivermi a 'feis', come le amiche più cool hanno preso a chiamarlo.

Anonimo ha detto...

Esilarante!