domenica 12 ottobre 2008

Dei concerti in piazza


Le mie cinque canzoni preferite dei Cure sono: In Between Days, Just Like Heaven, Lullaby (adoro il video, poi!), A Forest. Al primo posto c’è Boys Don’t Cry, canzone fantastica la cui metrica scarna conserva ancora un impatto devastante, con la voce insolente d Robert Smith posseduta dal Belzebù adolescenziale. Non conosco i Cure a menadito. Qualsiasi fan scatenato se ne accorgerebbe dalla top 5 convenzionale che ho stilato. Ma li apprezzo enormemente per ciò che hanno rappresentato, per la solennità delle loro atmosfere, per la chiave gotica con cui hanno letto le ansie esistenziali di una generazione, per il romanticismo cupo e nervoso, per il sound esclusivo.
Prometto di mettermi di buzzo buono ad ascoltare i loro primi lavori. Intanto sono andato al concerto a San Giovanni. Uno di questi concerti di piazza ‘patrocinati da’…(nel caso in questione: Comune di Roma, Coca Cola, Mtv). I concerti gratuiti sono una manna dal cielo per chi ama la musica, ma come rovescio della medaglia risultano essere dispersivi ed eccessivamente informali. Mi spiego. Se io pago il biglietto, acquistandolo spesso con mesi di anticipo per vedere un artista o una band, mi reco al concerto con una carica ed un’esaltazione che condivido con il resto del pubblico (pagante). Si crea una sorta di concentrazione, di esclusività, di rispetto e di adorazione verso chi sta suonando sul palco. C’è una simbiosi carnale tra chi fa spettacolo e chi lo fruisce. E c’è una considerazione maggiore per i momenti solenni. Quando Robert Smith e company ripercorrevano il loro (e il nostro) passato snocciolando i vari bis, autentico ritratto di un’epoca, c’era gente che fluiva e defluiva, si distraeva, faceva altro. La stragrande maggioranza delle persone che partecipano ai concerti di piazza gratuiti ci va perché è un evento che ha luogo in città. Sta lì per esserci. E anche per dire di esserci stato. Il concerto diventa un luogo di appuntamento dove spesso si decide cosa fare più tardi. Sono la proiezione in scala delle feste di paese. Tutti escono di casa dopo cena per andare a dare un’occhiata. Sono momenti di passaggio. Quando lo show è a pagamento e hai scelto in maniera premeditata di esserci, lo show diventa per te il principale evento della giornata, il motivo per cui quella mattina hai deciso di alzarti dal letto. L’arte per tutti è una cosa eccezionale ma determina una mancanza di selezione nei fruitori. Se facessero una mostra di Picasso per le strade, tutti andrebbero a vederla. Perché è gratis. A molti di Picasso non fregherebbe nulla né durante né soprattutto dopo. E’ vero che la grande arte arriva prima o poi. Un capolavoro è tale perché riesce a toccare le corde di tutti, anche di chi non ha disposizione né gli strumenti per apprezzarla, né la voglia e il tempo di metterli a punto tali strumenti. E’ giusto. Ma non è giusto allo stesso tempo. E ora che ci ripenso, non credo che alla pischella coatta o alla casalinga in libera uscita, abituata alle pacchianate ebeti della De Filippi o ai voyeurismi di serie C dell’Isola dei famosi, la visione del Guernica susciti un granché. La sensibilità artistica va allenata, cresciuta, coccolata. Se non ti piace non te ne faccio una colpa, ma non venire a rompere il cazzo. Chi mi accusasse di snobismo avrebbe le sue ragioni. Un pizzico di snobismo c’è. Ma c’è anche un’eterna voglia di imparare e una forma di rispetto verso chi ha più talento di noi e ci racconta e ci ha raccontato come siamo. In realtà sei tu, indifferente e presenzialista, ad impedire a me di godermi quello che ho scelto di godermi in santa pace.
Al concerto al Colosseo di Simon & Garfunkel di alcuni anni fa, nel gruppo di persone che erano con me ce n’era una che non sapeva nemmeno chi fossero. Non sapeva nemmeno i loro nomi. Se ti fingi appassionato di musica (e nel momento in cu schiodi le chiappe dalla poltrona per stare in piedi due ore nella calca vorrei sperare almeno che tu lo sia) e non sai chi sono Simon e Garfunkel, è come saper leggere e non sapere chi è Alessandro Manzoni. Ma comunque ti perdono. Ma se durante The Sound of Silence (cazzo di budda, The Sound of Silence) mi rompi i coglioni parlando al telefonino o mi chiami per farmi vedere un mms del cazzo che ti hanno spedito, allora meriti la pena di morte.
Ci sono momenti solenni. Durante il concerto (a pagamento) di Springsteen del tour della Seeger Session nel 2006, un venditore ambulante mi è passato a fianco e mi strillava nelle orecchie “acqua, coca, birra” mentre il Boss ci regalava una versione commovente di The River (The River, limortaccitua, hai capito ambulante del cazzo ignorante, abusivo che nemmeno potresti stare lì a vendere l’acqua?) arrangiata con sonorità folk. Io spero che quell’ambulante filgio di puttana sia morto di fame. Ma tra mille tormenti.
Al concerto dei Genesis al Circo Massimo vedevo persone anzianotte e palesemente a digiuno di musica che si erano portate le sedie da casa e stavano lì non so a fare che. Dubito a godersi il repertorio progressive anni Settanta. Forse avranno mosso le zampe durante l'orecchiabilissima Invisible Touch.
E ancora, sempre al Colosseo, sempre gratuito, la chiusura del tour di Billy Joel. Io adoro Billy Joel ma in Italia non se l’è mai cagato nessuno. C’èra un fottio di gente. Ok. Bene.
Billy Joel chiude lo show con Piano Man che è la canzone che più lo caratterizza come artista e che racconta un mood di sogni infranti ma di illusioni ancora testardamente intatte. C’è un intero pianeta di caratteri, paure, di solitudini che collidono nelle notti non solo newyorchesi dietro quelle note e quelle parole.
Billy Joel è The Piano Man. Dal 1973, o giù di lì, Billy Joel lascia che sia il pubblico ad intonare a squarciagola il ritornello (Sing us a song, you’re the Piano Man, Sing us a song tonight…ecc ecc.). Ecco, io ero l’unico che stava lì a strillarlo circondato da decine di persone ammutolite, alcune delle quali mi guardavano come fossi un alieno. Ero io l’alieno? Billy Joel mancava dall'Italia dal 1990 e me lo stavo finalmente godendo.
Oltre a Piano Man, le mie sue cinque canzoni preferite sono: She’s Always a Woman, Scenes from an Italian restaurant, You May be Right, You’re Only Human e New York State of Mind.


Chiudo:
Ormai è palese che io non riesca ad aggiornare il blog frequentemente. Me tapino, me sanguisuga, direbbe Zio Paperone. I motivi sono che ultimamente sono stato a Londra (ne scriverò). Poi che ci sono cose che scrivo di mio pugno sul mio diario personale, altre che scriverei, ad esempio, solo su facebook (ne scriverò…oddio, facebook…micidiale!), altre che porterei solo in una conversazione con amici intimi e altre che sono da blog. Ecco, ancora non sono riuscito a tracciare con precisione il perimetro che delimita gli argomenti da blog.
Poi questo periodo è stato un periodo del cazzo. Ho lo “shining” a mille. Ovvero sono in una di quelle fasi in cui ho la consapevolezza assoluta di quello che ho fatto e non ho fatto, che sto facendo e non sto facendo. Del perché e del percome. Delle scelte sbagliate e del tempo perduto. Sto cercando qualcosa che riesca a salvarmi la vita. Forse l’ho trovata, e forse no. E di questo non so e non credo che ne parlerò.

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