giovedì 26 febbraio 2009

La fine delle illusioni


Parto da una definizione vaga e molto poco professionale, con una di quelle frasi che direi se venissi interrogato all’uscita della sala, col popcorn ancora tra gli incisivi: Revolutionary Road non è un grande film, però è un film che fa centro. Non è un grande film perché al suo interno il cinema fugge verso il teatro, intrappolato nella logica delle scene madri e del campo/controcampo; è lì che cerca il decollo, trainato da Leonardo Di Caprio (bravo) e Kate Winslet (formidabile, come sempre), arricchito da un gruppetto di comprimari di gran classe (i comprimari, uno dei punti deboli del cinema italiano) specie Michael Shannon che fa il matto e dice la verità con tempismo crudele e senza eufemismi. Non è un grande film ma non è consolatorio come quel bluff chiamato “American Beauty” con cui lo stesso regista, dieci anni fa, rimproverava le coscienze benpensanti offrendogli troppe vie d’uscita. Non è consolatorio soprattutto se si entra in empatia col tormento interiore del racconto che è il lento naufragio di una donna (consapevole) e di chi la circonda (inconsapevoli) verso la schiavitù dell’anonimato esistenziale. In breve: America, anni ’50, superficie linda e pinta, frutto del boom del Dopoguerra e dell’onda lunga del New Deal; coniugi insoddisfatti, lei è più coraggiosa e spinge per vivere la vita nella sua pienezza convincendo lui a trasferirsi a Parigi. Lui, impiegato ‘invisibile’ in un’azienda con spazi open space dove sei un numero e non una persona. Fuori l’ombra del conformismo si allunga sui giardini curatissimi delle case di provincia che sono una specie di parto architettonico plurigemellare. All’inizio entrambi se ne fregano di quello che sarà, lì in Francia. Poi per lui arriva l’occasione di una promozione, di un progetto aziendale, di un ingresso nel futuro: i computer. E tutto cambia con l’aggiunta di un imprevisto chiamato gravidanza. Per lei è l’horror vacui, per lui Parigi diventa uno spreco di risorse, un salto nel buio inaccettabile. Litigi furiosi, desideri di aborto, verità nascoste. Poi il tragico epilogo. C’è una scena,la migliore del film, nel sottofinale, e guarda caso non si parla, ma si scruta nell’ombra e dentro se stessi con i due coniugi distanti: lui nella casa, lei nel bosco a prendere una decisione, quella decisione da cui non si torna più indietro. E’ il momento in cui il film ha la svolta, non solo narrativa ed estetica, perché ritrova il suo senso e mette le radici ad un’idea ambiziosa permettendo di riformulare in positivo anche ciò che di poco convincente si era visto sin lì.
Il supplizio di una vita sprecata non è nella rassegnazione (quella che coglie Di Caprio su una panchina nell’inquadratura finale), non è nel lutto da elaborare, ma nella graduale, ipnotica presa di coscienza che le illusioni sono finite, che chi non ha talento è perduto, che dietro i falsi miti della vita agiata, del ruolo sociale e dell’American Way of Life non c’è nulla, nemmeno un fantasma, forse solo una macchia di sangue che sgocciola sulla moquette. La moglie ritorna dal bosco e si appresta per l’ultima recita prima di decidere per sé, per il suo corpo, per la sua vita e la sua morte in un atto estremo e macabro di indipendenza. Sceglie di non tornare indietro, perché troppo soffocante sarebbe sostare in quel vialetto assolato o nel silenzio incombente di una grande casa ad aspettare l’inizio della fase, eterna, più tranquillizzante della rassegnazione. C’è una sola cosa che fa più male del sapere che hai perduto qualcosa ed è vivere al presente il momento in cui ti rendi conto che lo stai perdendo e ti viene impedito di ribellarti. Perché non puoi, perché non ce la fai. E perché non esiste nessuna ridicola ‘seconda chance’. La rivoluzione è solamente lo stupido nome di una strada.

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