martedì 28 luglio 2009

La notte di Bruce


Bisognerebbe vederne almeno 3 o 4 di concerti del Boss, per ogni tour. C’è chi lo fa, e un po’, anzi molto, lo invidio. Perché dopo le ‘tue’ 30 canzoni per 3 ore, sai che ce ne saranno altre, la sera dopo, in un’altra città. Diverse. E che quella scaletta conterrà proprio quei pezzi che tu desideravi ascoltare. Certo non ci pensi quando sei nel pieno dell’ebbrezza, con le luci dello stadio a giorno a saltare e ballare e strillare come un forsennato “Twist & Shout”. Sei stremato. E lui, lassù sul palco avrebbe ancora un paio d’ore di benzina e sudore da versare.
Bruce. Roma, 19 luglio 2009, ore 22.30: Uno – Due…BADLANDS…L’avrà cantata un milione di volte, eppure sembra che quella che stai ascoltando sia la versione definitiva, quella che ti salverà la vita. Badlands è una canzone sulla resistenza, la fuga e la ribellione. Come Thunder Road. Che quando iniziano le note, vorresti avere una bottiglia per versarci le tue lacrime e non vedi l’ora che lui stia zitto e tu, insieme ad altri migliaia di seguaci impazienti e invasati, possa urlare: “Show a little faith, there’s magic in the night, you ain’t a beauty buy hey, you’re alright…”. E quel momento arriva. come in ogni liturgia che si rispetti. Come il coro di Born to Run. Potresti urlarlo ogni giorno: alzarti la mattina, lavarti, mangiare, lavorare, amare, ammalarti, guarire, solo per quello, per quei pochi versi che esplodono in mille pulsioni. Bruce, il desiderio. Il cuore che ha fame. Hungry Heart. E di nuovo, come se non avessimo fatto altro nella vita, come se fossimo venuti al mondo solamente per questo, quelle parole ti schizzano fuori dallo stomaco. Bruce e la notte: luogo deputato di centinaia di storie. Però a un certo punto, della notte non ce n’è più bisogno. Ci siamo rincontrati, di notte, ci siamo scrutati nell’oscurità; una comunione di anime e desideri, di notte; di perdenti ancora infiammati di vita, di notte. Poi il buio diventa superfluo. La notte l’hai assimilata. Ecco perché i suoi concerti finiscono con la luce del giorno. Così ci si può finalmente guardare negli occhi, guardarlo negli occhi, frugare fra i nostri graffi, che dall’ultimo concerto, sono diventati più numerosi e profondi. Come i peccati e i fallimenti. Possiamo mostrare spavaldi i nostri visi esaltati, radunarci intorno al suono del sassofono-totem di Big Man, raccogliere tutti i pezzi e finalmente ricostruirsi, rivedersi come in una fotografia. Il cuore che impazza sotto i colpi della batteria di Max Weinberg. Solamente chi ha visto Bruce Springsteen dal vivo può capire. Con Bruce si torna a casa. Una casa che sta su un confine. Un confine da cui si vede tutto. Una piccola Promised Land di consapevolezza zippata in tre ore. Capisci in quegli istanti, che è quello il tuo posto nel mondo. E da nessun’altra parte. Ogni volta va in scena una specie di rapporto carnale: la notte, il fuoco, il desiderio, la passione, l’estasi.
Ci sono 3 concerti in uno. Nella prima parte di rendi conto che hai davanti a te la più grande rock’n roll del mondo. Tecnicamente eccelsa. Nella seconda, imprevedibile, Bruce raccoglie le richieste del pubblico scritte su dei cartelloni e decide lì per lì quali pezzi suonare. E’ il momento più gustoso: si apre lo scrigno dei gioielli e dei ricordi. Sei contento, ma rimani deluso. Sei deluso, ma fuori di te per la contentezza. Perché non è mai come ti aspetti.
Niente Drive All Night, niente Backstreets. Niente Cadillac Ranch. La scaletta perfetta non esiste. Accidenti. Poi, il concerto, inteso in maniera tradizionale, con la scaletta scritta di suo pugno, ricomincia e raggiunge il top con Born To Run. Quella è la linea di demarcazione, tra la fine del concerto e i bis, tra la notte e il giorno, tra le sorprese e altre sorprese. Perché i bis non sono sempre i soliti. Sì, la maggior parte delle volte pesca da un gruppetto di una quindicina di canzoni. Ma a Roma, inaspettatamente, ecco che dedica “My City of Ruins” ai terremotati abruzzesi. Ecco che riprende un cartellone (ma non erano finite le richieste?) e si scatena con You Can’t Sit Down (e questa da dove diavolo l’ha tirata fuori? Perché non la conosco? E’ una cover? Sì, è una cover). E ancora, Dancing in the Dark. Ballare nelle tenebre, Ma le tenebre non ci sono più.
Bruce ti dà la misura di ciò che un artista può fare sul palco. Ti rendi conto che gli altri sono indietro, indietrissimo. Non si concedono, non trascinano quanto potrebbero trascinare. Non danno tutto di loro stessi. Non c’è la stessa alternanza magica fra momenti seri e cazzeggio. La generosità. La semplicità. Il furore del rock. L’allegria. Dopo un paio di canzoni, all’inizio, Bruce si sposta la chitarra sul fianco, afferra il microfono, scende un paio di scalini e via, si mescola col pubblico, ci si impasta. E’ il segnale dell’amico che rifiuta qualsiasi formalità e solennità. Come se ci fossimo visti la sera prima a cena: il palco non è, mai, un altare sacro e irraggiungibile.
Mentre vado via, e non stacco gli occhi dallo stadio, ci penso. Ai rimpianti. Ad averlo visto così poche volte. Non poteva esserci nulla di più importante, di impellente. Non poteva esserci un motivo migliore per infilarsi in treno, in macchina e raggiungere una città, uno stadio, una notte (che poi diventa giorno). Per fuggire verso me stesso. Che avevo di meglio da fare, quando tra me e lui c’era solo una striscia d’asfalto? Penso con malinconia che tutto questo sta per finire. Che la E Street Band non è eterna. Che sono vecchi. Che Big Man sta male. Che potrebbe essere l’ultimo concerto. Che Bobby Jean non esiste. Che tante, troppe canzoni non sono riuscito ad ascoltarle dal vivo. Che pure stavolta non ha fatto The River. E che voglio tornare all’inizio, a Badlands:
“you wake up in the night,
with a fear so real,
spend your life waiting for a moment
that just don't come,
Well, don't waste your time waiting…”

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