mercoledì 28 maggio 2008

Gomorra!


Esiste, dunque. E’ vivo, forse. Il cinema italiano che guarda a modelli alti e ambiziosi. Che non ha l’urgenza di soddisfare un pubblico ammaestrato né di scaraventare al cinema, almeno una volta l’anno, lo spettatore ipnotizzato da pacchi, amici, dibattiti calcistici e capace di tenere alta la concentrazione per la sola durata di uno spot. Se sta rinascendo il cinema italiano, il suo primo vagito è “Gomorra”. La forza di denuncia sociale del Neorealismo che si somma agli affreschi corali dei mafia movies di Scorsese e alle esigenze di visione di una qualsiasi opera di Altman. Guardare “Gomorra” obbliga alla partecipazione, alla condivisione di uno sguardo segmentato e intricato. Senza scampo alcuno, incollati ai personaggi, aggrediti dal dialetto forzatamente e intelligentemente sottotitolato, orfani di una superflua voce off, l’unica chance per vivere il film è amalgamarsi ad esso, accettare di varcare un confine. Per entrarci dentro, come in un cono di luce e ombre, violenza e disperazione. Braccati dai volti, dai gesti volgari e minacciosi, il giudizio sulla realtà, quella realtà così lontana, così vicina, rende al contempo destabilizzati e lucidi. Ma soprattutto consapevoli che un’opera di fiction di tale impatto sa finalmente smuovere le viscere e le riflessioni di menti disabituate all’indignazione autentica, quella irraggiungibile dai reportage televisivi. I volti, dunque, molti presi dalla strada da quella location cimiteriale che è un condominio lugubre di Scampia, un alveare di anime perse in cui fa il suo ingresso silenzioso il portasoldi Ciro. Quelli giovani segnati dalle macchie di una vita da camorrista precoce, con le espressioni perse che sparano nel nulla, in mutande, in riva ad una pozzanghera putrida. Quelli raccapriccianti di un boss lercio di isolamento che comanda un quartiere ma rimane chiuso coi suoi soldi sporchi e la sua fame di potere in qualche scantinato. A giocare a poker. A decidere la vita e la morte degli altri. I volti e il lessico sciatto di sarti, usurai, burocrati. Manovalanza. Che è il sangue che scorre nelle vene della camorra. Se c’è qualcosa di diverso in “Gomorra” è l’impatto emotivo, sia nella sua totalità, che lo renderanno pietra di paragone di ogni altro film sull’argomento e non solo; sia nelle fulminanti e memorabili idee registiche. La prima. Sequenza iniziale. Un teaser, come per i film americani, che ci trascina nel buio pesto del Sistema. Camorristi vanesi, masticati e abbrustoliti dalle lampade accecanti del solarium. Corpi incandescenti, freddati da brutali colpi di pistola. Ultracorpi da film di fantascienza, marziani che girano nell'orbita di un altro sistema solare. E poi, l’iniziazione dei piccoli camorristi in erba. Colpiti a bruciapelo con indosso il giubbotto antiproiettile. Un rito da setta, da club dell’orrore, a cui gli aspiranti criminali si sottopongono con un’espressione di orgoglio e terrore negli occhi. La libertà dietro di loro. La vita da affiliato davanti: un patibolo esistenziale che dura per l'eternità. Per se stessi e per ogni membro delle loro famiglie d'origine. Giurano di schierarsi col più solenne e minaccioso dei giuramenti. "O con noi o contro di noi". Promettono di uccidere e far uccidere, senza scrupoli. Solo il tempo del click sul grilletto. Di armi rubate, ovviamente. Si assicurano un futuro che li porterà a nascondersi in un portabagagli, a sfogare immaturi istinti sessuali in un privé con le mignotte. E a morire su una spiaggia arida, per mano di qualche butterato senza voce. Per poi essere raccolti da una ruspa che si allontana in campo lungo, prima dei titoli di coda. Una coda sporchissima di sangue.

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