domenica 28 aprile 2013

L'uomo del caffè



Si presentò alla porta fradicio dalla testa ai piedi.
La pioggia, martellante, aveva incominciato a ruggire dalla sera prima, mentre il treno che lo aveva portato in città fischiava il suo ingresso alla stazione.
Solomon ci aveva avvertito del suo arrivo con una telefonata stringata: poche parole, quasi uno scarno comunicato, pronunciato come se avesse un graffio alle corde vocali.
In quell’istante un lampo illuminò antenne e comignoli; svelò reticoli di crepe sull’asfalto e sciami di insetti senza nome: ad ogni cosa fu negato il pudore della penombra.  
Dio aveva acceso un fiammifero, lassù nel cielo.
Solomon era venuto a prendere il caffè.  Noi lo avevamo invitato a pranzo. Lo avremmo fatto altre volte. Ma lui rispondeva sempre allo stesso modo: “No, vengo solo per il caffè”. Lapidario e inattaccabile, col sul lessico ristretto.
Ci sedemmo a tavola, in silenzio, incuriositi e sulle spine. Il nostro rito quotidiano aveva un ospite: il più atteso e il più temuto.
“Che notizie ci porti, Solomon?”
La domanda di mio marito Joe separò il tintinnio dei cucchiaini dal borbottio di Solomon.
“Per me molto zucchero”.
Non c’era nulla di strano in quella risposta. Ogni volta che gli facevi una domanda, Solomon spostava il bersaglio, spiazzandoti.
Sorseggiammo i caffè.
Portando la tazzina alle labbra, Solomon esibì il suo gomito scorticato. E io immaginai il resto del corpo, infittito di cicatrici, macchie del destino, punte di pugnali e briciole di vetro sottopelle.
“Hai trovato lavoro?” chiese Joe, interessato al prossimo depistaggio.
“ Ci vediamo domani per il caffè”.
E intanto grattava lo zucchero dal fondo della tazzina con un’unghia sporgente dal polpastrello carnoso.
Io non potevo fare a meno di galleggiare nel flusso vischioso lanciato dal suo sguardo.
“A domani”, disse.
E si alzò, pronto a scaraventarsi nella pioggia; la camicia, ancora bagnata, si era appiccicata alla schiena. Una manciata di rimasugli di fango gli si staccavano dalle scarpe ammucchiandosi sul pavimento.
Sul collo il tatuaggio di una strega.
Io e Joe non ne parlammo quella sera. Ma la notte si affollò di risvegli brevi e frequenti. Il preludio nervoso di altri pomeriggi a venire.
Per noi Solomon era come una foto compromettente dentro uno scatolone in soffitta. Ti ci imbattevi quando ti eri scordato della sua esistenza, cercando altro, e riscoprivi la dissolutezza di quella testimonianza inconfessabile che non avevi mai avuto il coraggio di buttare. E continuavi a non buttarla.
Solomon la posa sconveniente, la recidiva di una malattia, una filastrocca perversa in un angolo della memoria.


Joe

Il telefono ringhiò alle prime luci dell’alba. Avevo gli occhi già sbarrati. Da dieci giorni Solomon chiamava puntualmente a quell’ora.
“Pronto, Joe”.
“Ciao Solomon”.
“Vengo a prendere il caffè oggi pomeriggio”.
“Sì, ci vediamo più tardi”.
Dieci telefonate clonate. Il timbro di voce di un burocrate, e io: la pelle d’oca, il cuore in affanno.
Dieci notti in cima al letto a rimuginare concetti senza forma, pensieri stropicciati e lisi.
Conobbi Solomon in un vicolo nei paraggi del porto. Un teppistello da quatto soldi e cento chili mi aveva appena rubato il portafogli.
Solomon lo raccolse da terra mentre il delinquente sputava i denti fra i rifiuti.
Rientrai nel locale insieme al misterioso giustiziere.
“La ringrazio signore per aver recuperato i miei soldi e i miei documenti, posso fare qualcosa per sdebitarmi?”
“Io prendo un caffè” rispose; le sue mani pesanti e ruvide bloccavano il tavolo impiastrato di alcol e saliva.
Rimanemmo in silenzio. E in silenzio lo vidi svanire nell’ombra dalla quale era comparso.
Quel pomeriggio, quando si sedette in soggiorno con me e Martha, fissai il suo viso rugoso, concentrandomi sulle palpebre rigonfie e illividite che coprivano con una piega irregolare la parte inferiore della pupilla.
Un incisivo spezzato godeva dell’umidità della sua lingua: un gesto che faceva di continuo, muovendo in fuori le labbra serrate, come se stesse masticando uno spillo.
Solomon non aveva data di scadenza.
Per come la vedevo io, Solomon era immortale.
Vidi la sua fotografia sul giornale una mattina di tanti anni fa.
L’unico sopravvissuto ad un pauroso incidente ferroviario.
Immaginai la sua flemma mentre tutt’attorno i visi si schiantavano sul pavimento, le teste fracassavano i finestrini, pezzi appuntiti di soffitti e pareti bucavano occhi
e squarciavano gole; mucchi di corpi senza vita ammassati fra il sangue e la sporcizia e lui, incolume, che trovava un varco nella morte.
La polizia lo interrogò invano; lui rimase zitto, le narici larghe come crateri annusavano una tazza di caffè fumante.
Per Solomon non esistono i punti interrogativi.
Notte dopo notte mi rigiravo nel letto. Conoscevo a memoria ogni centimetro del mio lenzuolo sgualcito e arroventato.
Quando decidevo orgogliosamente di arrendermi all’appiccicosa realtà insonne, mi ritrovavo a pregare. Con le mani giunte e gli occhi verso il soffitto, facevo uscire un sospiro di parole dalla mia bocca secca.
Farfugliavo. Ma il fragore del temporale complicava anche il più interiore dei dialoghi.
Pregavo che Solomon non tornasse mai più.
Ma Solomon è un uomo che ritorna, non un uomo che se ne va.
La testa e il cuore speravano solamente che scomparisse per un po’.
Un giorno, un mese, un anno.
E invece, di nuovo, mentre il primo chiarore aizzava i galli contro il cielo pallido, allungai la mano sulla cornetta del telefono.
Un altro giorno infinito chiedeva il suo dazio.
Un altro giorno ribadiva la mia resa.


Martha

Che Dio mi perdoni.
Con queste parole apro e chiudo ogni pagina di questo diario.
Tremo.
Oggi Solomon non si è presentato.
Sparito nel nulla. Via. Andato. Per chissà quanto.
Un giorno, un mese, un anno.
Ha smesso di piovere.
Anche oggi mi ero preparata ad accoglierlo.
Da padrona di casa, da moglie, da donna.
Speravo che il mio sonno profondo e i miei sogni inabissati nel fervore mi avessero impedito di sentire il telefono.
“Non ha chiamato” mi ha detto Joe, mentre preparavo il caffè, dopo il pranzo.
Ma certe consuetudini ti rendono imperterrita, in sospeso fra speranza e terrore.
Mi sforzavo di non fissare la porta a vetri, ma la visualizzavo con la mente immaginando l’ombra di quell’uomo; l’ombra che lo precedeva allungandosi e ingrossandosi fin su la tenda trasparente, dopo aver strisciato, oltraggiosa e liquida, sul viottolo del giardino.
La testa, il collo, il torace, le braccia, il ventre, le gambe, la forma delle scarpe.
Il prologo muto del suo ingresso in casa.
Poi il campanello suonava.
Aprivo sempre io; una mano sull’impugnatura della maniglia, l’altra che invece scivolava sulle cosce a disciplinare le pieghe della gonna.
Solomon entrava senza sorridere, mi camminava davanti, in direzione del soggiorno e io mi specchiavo nel nulla aggiustandomi i capelli.
Mi sentivo impettita. Ero impettita.
Lo vidi per la prima volta il giorno delle mie nozze con Joe.
Era seduto in un angolo del ristorante; con la lingua scavava il vuoto zuccherato di una tazza di caffè.
Chi è? Da dove viene? Quanti anni ha?
Lo chiesi a Joe qualche settimana più tardi.
“Si chiama Solomon. E’ l’uomo del porto”.
Non seppi più nulla di lui per molto tempo.
Lo lasciai impolverare in uno scatolone in soffitta, finché un giorno riapparve all’improvviso: eccolo, in mezzo alla strada, come partorito da una botola immaginaria.
L’uomo del porto. L’uomo del caffè.
Un neo minuscolo fra le sopracciglia. Sul polso destro il tatuaggio di un serpente. Sul mignolo un anello enorme e nero ammansiva i raggi del sole.
Lo invitai a casa per un caffè. Vidi Joe sorridere impallidito, aveva il colorito di una bambola di cera.
Fu in quell’occasione che ascoltai i dettagli sparsi e lacunosi della sua vita.
Il porto, il treno, gli incontri occasionali con Joe, i tanti caffè bevuti assieme.
Ma era Joe a parlare. Solomon stringeva un cucchiaino nel pugno e se ne stava in silenzio. Le labbra polpose e screpolate si muovevano come se stesse succhiando  uno spillo.
Io non riuscivo a stare ferma.
Solomon non mi guardò mai, ma io provavo imbarazzo, vergogna.
Percepivo la pelle che rivestiva la mia carne viva; la sentivo nell’atto di aderire, di combaciare. E per un istante ebbi un flash: la visione di me stessa dall’esterno. La pelle che avvolgeva come un guanto una donna. Me.
Ero agitata.
Univo e socchiudevo le gambe frementi e nervose; e ad ogni nuovo contatto tra le cosce ero sempre meno asciutta.
Avevo voglia di fumare una sigaretta sebbene non l’avessi mai fatto.  
Avevo voglia di sfilarmi le scarpe ed intrecciare le dita dei piedi.
Avevo voglia di ghiaccio sul mio seno rovente.
Avevo voglia di caffè.
Mi alzai dal divano con una scusa e mi precipitai in bagno.
Volevo che lo scroscio dell’acqua della doccia mi rendesse sorda. Che non avessi modo di ascoltare la mia ansia incontrollata. Volevo azzittire i palpiti.
Entrai nella doccia vestita e provai piacere nel sentire la stoffa attorcigliarsi sul mio corpo sotto il getto d’acqua bollente.
Non riuscivo a placarmi.
Lasciai scivolare la schiena lungo la parete e mi sedetti a gambe spalancate.
Le labbra si bagnavano di acqua e di saliva.
Gustavo il sapore dolce sulle mie dita molli.
Ero me stessa.
Rimasi lì a lungo, a piacermi e compiacermi fra le gocce e il vapore.
Quando riapparsi in soggiorno, Solomon non c’era più.
Il mio respiro era normale. Avevo la sensazione di aver tagliato un traguardo nel profondo dello spazio e che non sarei più tornata indietro.
“Lo rivediamo domani per un caffè” mi disse Joe.
“Potevi invitarlo a pranzo”.
“No, ha detto che vuole solo il caffè”.
Ora i miei sogni sono ritornati ad essere anonimi. Fra qualche mese smetterò di voltarmi verso la porta, di spiare le ombre in giardino, di sbirciare i polsi e i mignoli degli uomini.
La smetterò anche di origliare il mio corpo che ancora adesso mi sorprende coi suoi sbalzi incontrollati e mi fa precipitare nella doccia.
Acqua bollente. Stoffa. Un traguardo da tagliare.
Joe fa finta di niente.
Io ho ricominciato ad indossare la biancheria intima sotto il vestito.
Solomon è un uomo che ritorna.
Che Dio mi perdoni.