Si presentò alla
porta fradicio dalla testa ai piedi.
La pioggia,
martellante, aveva incominciato a ruggire dalla sera prima, mentre il treno che
lo aveva portato in città fischiava il suo ingresso alla stazione.
Solomon ci aveva
avvertito del suo arrivo con una telefonata stringata: poche parole, quasi uno
scarno comunicato, pronunciato come se avesse un graffio alle corde vocali.
In quell’istante un
lampo illuminò antenne e comignoli; svelò reticoli di crepe sull’asfalto e
sciami di insetti senza nome: ad ogni cosa fu negato il pudore della penombra.
Dio aveva acceso
un fiammifero, lassù nel cielo.
Solomon era
venuto a prendere il caffè. Noi lo
avevamo invitato a pranzo. Lo avremmo fatto altre volte. Ma lui rispondeva sempre
allo stesso modo: “No, vengo solo per il caffè”. Lapidario e inattaccabile, col
sul lessico ristretto.
Ci sedemmo a
tavola, in silenzio, incuriositi e sulle spine. Il nostro rito quotidiano aveva
un ospite: il più atteso e il più temuto.
“Che notizie ci
porti, Solomon?”
La domanda di mio
marito Joe separò il tintinnio dei cucchiaini dal borbottio di Solomon.
“Per me molto
zucchero”.
Non c’era nulla di
strano in quella risposta. Ogni volta che gli facevi una domanda, Solomon
spostava il bersaglio, spiazzandoti.
Sorseggiammo i
caffè.
Portando la
tazzina alle labbra, Solomon esibì il suo gomito scorticato. E io immaginai il
resto del corpo, infittito di cicatrici, macchie del destino, punte di pugnali
e briciole di vetro sottopelle.
“Hai trovato
lavoro?” chiese Joe, interessato al prossimo depistaggio.
“ Ci vediamo
domani per il caffè”.
E intanto
grattava lo zucchero dal fondo della tazzina con un’unghia sporgente dal
polpastrello carnoso.
Io non potevo
fare a meno di galleggiare nel flusso vischioso lanciato dal suo sguardo.
“A domani”,
disse.
E si alzò, pronto
a scaraventarsi nella pioggia; la camicia, ancora bagnata, si era appiccicata
alla schiena. Una manciata di rimasugli di fango gli si staccavano dalle scarpe
ammucchiandosi sul pavimento.
Sul collo il
tatuaggio di una strega.
Io e Joe non ne
parlammo quella sera. Ma la notte si affollò di risvegli brevi e frequenti. Il
preludio nervoso di altri pomeriggi a venire.
Per noi Solomon
era come una foto compromettente dentro uno scatolone in soffitta. Ti ci
imbattevi quando ti eri scordato della sua esistenza, cercando altro, e
riscoprivi la dissolutezza di quella testimonianza inconfessabile che non avevi
mai avuto il coraggio di buttare. E continuavi a non buttarla.
Solomon la posa
sconveniente, la recidiva di una malattia, una filastrocca perversa in un
angolo della memoria.
Joe
Il telefono
ringhiò alle prime luci dell’alba. Avevo gli occhi già sbarrati. Da dieci
giorni Solomon chiamava puntualmente a quell’ora.
“Pronto, Joe”.
“Ciao Solomon”.
“Vengo a prendere
il caffè oggi pomeriggio”.
“Sì, ci vediamo
più tardi”.
Dieci telefonate
clonate. Il timbro di voce di un burocrate, e io: la pelle d’oca, il cuore in
affanno.
Dieci notti in
cima al letto a rimuginare concetti senza forma, pensieri stropicciati e lisi.
Conobbi Solomon
in un vicolo nei paraggi del porto. Un teppistello da quatto soldi e cento
chili mi aveva appena rubato il portafogli.
Solomon lo
raccolse da terra mentre il delinquente sputava i denti fra i rifiuti.
Rientrai nel
locale insieme al misterioso giustiziere.
“La ringrazio
signore per aver recuperato i miei soldi e i miei documenti, posso fare
qualcosa per sdebitarmi?”
“Io prendo un caffè”
rispose; le sue mani pesanti e ruvide bloccavano il tavolo impiastrato di alcol
e saliva.
Rimanemmo in
silenzio. E in silenzio lo vidi svanire nell’ombra dalla quale era comparso.
Quel pomeriggio,
quando si sedette in soggiorno con me e Martha, fissai il suo viso rugoso,
concentrandomi sulle palpebre rigonfie e illividite che coprivano con una piega
irregolare la parte inferiore della pupilla.
Un incisivo
spezzato godeva dell’umidità della sua lingua: un gesto che faceva di continuo,
muovendo in fuori le labbra serrate, come se stesse masticando uno spillo.
Solomon non aveva
data di scadenza.
Per come la
vedevo io, Solomon era immortale.
Vidi la sua
fotografia sul giornale una mattina di tanti anni fa.
L’unico
sopravvissuto ad un pauroso incidente ferroviario.
Immaginai la sua
flemma mentre tutt’attorno i visi si schiantavano sul pavimento, le teste
fracassavano i finestrini, pezzi appuntiti di soffitti e pareti bucavano occhi
e squarciavano
gole; mucchi di corpi senza vita ammassati fra il sangue e la sporcizia e lui,
incolume, che trovava un varco nella morte.
La polizia lo
interrogò invano; lui rimase zitto, le narici larghe come crateri annusavano
una tazza di caffè fumante.
Per Solomon non
esistono i punti interrogativi.
Notte dopo notte
mi rigiravo nel letto. Conoscevo a memoria ogni centimetro del mio lenzuolo sgualcito
e arroventato.
Quando decidevo
orgogliosamente di arrendermi all’appiccicosa realtà insonne, mi ritrovavo a
pregare. Con le mani giunte e gli occhi verso il soffitto, facevo uscire un
sospiro di parole dalla mia bocca secca.
Farfugliavo. Ma
il fragore del temporale complicava anche il più interiore dei dialoghi.
Pregavo che
Solomon non tornasse mai più.
Ma Solomon è un
uomo che ritorna, non un uomo che se ne va.
La testa e il
cuore speravano solamente che scomparisse per un po’.
Un giorno, un
mese, un anno.
E invece, di
nuovo, mentre il primo chiarore aizzava i galli contro il cielo pallido, allungai
la mano sulla cornetta del telefono.
Un altro giorno
infinito chiedeva il suo dazio.
Un altro giorno
ribadiva la mia resa.
Martha
Che Dio mi
perdoni.
Con queste parole
apro e chiudo ogni pagina di questo diario.
Tremo.
Oggi Solomon non
si è presentato.
Sparito nel
nulla. Via. Andato. Per chissà quanto.
Un giorno, un
mese, un anno.
Ha smesso di
piovere.
Anche oggi mi ero
preparata ad accoglierlo.
Da padrona di
casa, da moglie, da donna.
Speravo che il
mio sonno profondo e i miei sogni inabissati nel fervore mi avessero impedito
di sentire il telefono.
“Non ha chiamato”
mi ha detto Joe, mentre preparavo il caffè, dopo il pranzo.
Ma certe
consuetudini ti rendono imperterrita, in sospeso fra speranza e terrore.
Mi sforzavo di
non fissare la porta a vetri, ma la visualizzavo con la mente immaginando
l’ombra di quell’uomo; l’ombra che lo precedeva allungandosi e ingrossandosi
fin su la tenda trasparente, dopo aver strisciato, oltraggiosa e liquida, sul
viottolo del giardino.
La testa, il
collo, il torace, le braccia, il ventre, le gambe, la forma delle scarpe.
Il prologo muto
del suo ingresso in casa.
Poi il campanello
suonava.
Aprivo sempre io;
una mano sull’impugnatura della maniglia, l’altra che invece scivolava sulle
cosce a disciplinare le pieghe della gonna.
Solomon entrava
senza sorridere, mi camminava davanti, in direzione del soggiorno e io mi
specchiavo nel nulla aggiustandomi i capelli.
Mi sentivo
impettita. Ero impettita.
Lo vidi per la
prima volta il giorno delle mie nozze con Joe.
Era seduto in un
angolo del ristorante; con la lingua scavava il vuoto zuccherato di una tazza
di caffè.
Chi è? Da dove
viene? Quanti anni ha?
Lo chiesi a Joe
qualche settimana più tardi.
“Si chiama
Solomon. E’ l’uomo del porto”.
Non seppi più
nulla di lui per molto tempo.
Lo lasciai
impolverare in uno scatolone in soffitta, finché un giorno riapparve
all’improvviso: eccolo, in mezzo alla strada, come partorito da una botola
immaginaria.
L’uomo del porto.
L’uomo del caffè.
Un neo minuscolo
fra le sopracciglia. Sul polso destro il tatuaggio di un serpente. Sul mignolo
un anello enorme e nero ammansiva i raggi del sole.
Lo invitai a casa
per un caffè. Vidi Joe sorridere impallidito, aveva il colorito di una bambola
di cera.
Fu in
quell’occasione che ascoltai i dettagli sparsi e lacunosi della sua vita.
Il porto, il treno,
gli incontri occasionali con Joe, i tanti caffè bevuti assieme.
Ma era Joe a
parlare. Solomon stringeva un cucchiaino nel pugno e se ne stava in silenzio.
Le labbra polpose e screpolate si muovevano come se stesse succhiando uno spillo.
Io non riuscivo a
stare ferma.
Solomon non mi
guardò mai, ma io provavo imbarazzo, vergogna.
Percepivo la
pelle che rivestiva la mia carne viva; la sentivo nell’atto di aderire, di
combaciare. E per un istante ebbi un flash: la visione di me stessa
dall’esterno. La pelle che avvolgeva come un guanto una donna. Me.
Ero agitata.
Univo e
socchiudevo le gambe frementi e nervose; e ad ogni nuovo contatto tra le cosce
ero sempre meno asciutta.
Avevo voglia di
fumare una sigaretta sebbene non l’avessi mai fatto.
Avevo voglia di
sfilarmi le scarpe ed intrecciare le dita dei piedi.
Avevo voglia di
ghiaccio sul mio seno rovente.
Avevo voglia di
caffè.
Mi alzai dal
divano con una scusa e mi precipitai in bagno.
Volevo che lo
scroscio dell’acqua della doccia mi rendesse sorda. Che non avessi modo di
ascoltare la mia ansia incontrollata. Volevo azzittire i palpiti.
Entrai nella
doccia vestita e provai piacere nel sentire la stoffa attorcigliarsi sul mio
corpo sotto il getto d’acqua bollente.
Non riuscivo a
placarmi.
Lasciai scivolare
la schiena lungo la parete e mi sedetti a gambe spalancate.
Le labbra si
bagnavano di acqua e di saliva.
Gustavo il sapore
dolce sulle mie dita molli.
Ero me stessa.
Rimasi lì a
lungo, a piacermi e compiacermi fra le gocce e il vapore.
Quando riapparsi
in soggiorno, Solomon non c’era più.
Il mio respiro era
normale. Avevo la sensazione di aver tagliato un traguardo nel profondo dello
spazio e che non sarei più tornata indietro.
“Lo rivediamo domani
per un caffè” mi disse Joe.
“Potevi invitarlo
a pranzo”.
“No, ha detto che
vuole solo il caffè”.
Ora i miei sogni
sono ritornati ad essere anonimi. Fra qualche mese smetterò di voltarmi verso
la porta, di spiare le ombre in giardino, di sbirciare i polsi e i mignoli
degli uomini.
La smetterò anche
di origliare il mio corpo che ancora adesso mi sorprende coi suoi sbalzi
incontrollati e mi fa precipitare nella doccia.
Acqua bollente.
Stoffa. Un traguardo da tagliare.
Joe fa finta di
niente.
Io ho
ricominciato ad indossare la biancheria intima sotto il vestito.
Solomon è un uomo
che ritorna.
Che Dio mi
perdoni.